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Il ruolo dell'Intelligenza Artificiale" nella deterrenza militare

14/1/2025

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​Stefano Mitrione _ OHi Mag | 14/01/2025
​​Internet distruggerà la democrazia? E l'intelligenza artificiale cosa distruggerà? Domande ormai sempre più ricorrenti ma che hanno origini in tempi molto più remoti di quanto si possa immaginare. Perché quella che oggi chiamiamo A.I. ha avuto origine già dalle prime scritture sanscrite. Ed è la nostra stessa evoluzione di specie che ci ha portato a questa nuova era della nostra specie che vogliamo credere non appartenere alla nostra esistenza umana ma che invece non potrebbe essere altro che una sua naturale trasformazione come tante altre avvenute in passato.
Mario Coletti, professore all'Università IULM di Milano ma con residenza a Londra e una scia di successi nel campo delle Digital Company come Nextatlas, Capgemini Consulting, Geometry Global, Ogilvy, WPP e Partner, Sparco S.p.A., ha ben chiaro il percorso culturale che ci ha portati ad una radicale impronta evolutiva della nostra civiltà. Da cultura scritta a cultura visiva; così un'altra volta nella storia i libri stanno quasi scomparendo come già avvenuto tra il 1.200 e 1.600 A.C. Quindi dallo scritto al verbale al visivo. Oggi le nuove generazioni comunicano e apprendono prevalentemente da un immenso flusso continuo di immagini e dati multimediali totalmente anacronistici, sulla base matematica di un codice binario invisibile alla cognizione umana (quello che contiene solo numeri 1 e 0 in un ordine apparentemente casuale).
Ma questo è un bene o un male? Potrà l'intelligenza artificiale minacciare, o addirittura sostituire, la nostra specie? Come per tutte le innovazioni è un bene quando sarà usata per il fabbisogno umano, inteso come capitale umano. Poi ovviamente c'è chi potrà usarla nella sua declinazione malevola. Ma per poter capire cos'è realmente l'Intelligenza Artificiale dobbiamo prima comprendere cos'è l'intelligenza. E la risposta sembra essere ovvia: è quella capacità arcaica di risolvere un problema. E questo non solo per quanto riguarda noi, ma tutto il mondo animale e biologico, mentre l'intelligenza artificiale è una "scienza derivata" che si occupa di sviluppare altre macchine intelligenti. Quindi, alla base di qualsiasi concetto di intelligenza, ci sono tre capacità cognitive imprescindibili: apprendere, ragionare e migliorare. Con la differenza che mentre l'intelligenza umana è emanata su processi organici deperibili, quella artificiale è supportata da cellule inorganiche indistruttibili. E questo può metterci di fronte a qualche supposizione etica sicuramente scomoda. Ma allora perché intraprendere una strada così rischiosa? Per il semplice motivo che l'uomo non può fare a meno della sua indole esplorativa, e non saremmo quello che siamo oggi se non fosse stato così. È quasi un'inerzia, una forma simile a quella di gravità, quella che ci attrae verso il progresso. Contrariamente saremo rimasti all'età della pietra e non avremmo mai potuto comunicare tra di noi alla velocità di un semplice battito di polpastrello sul vetro di uno smartphone., evolverci guardando nelle profondità del cosmo alla ricerca di una risposta alla domanda: chi siamo e perchè esistiamo. Ma i vantaggi dell'intelligenza artificiale sono altrettanto interessanti come quello di ridurre la fatica umana e allungare la vita. Tra gli svantaggi, oltre quello più remoto di una sostituzione di specie c'è quello più realistico della tutela dei dati personali. E alla domanda se stiamo correndo troppo questa nuova tecnologia tanto nuova non è; dobbiamo andare indietro di un bel po' di decenni per scoprire una verità ben diversa. La storia dell'intelligenza artificiale inizia a fare i suoi primi passi nel nostro mondo grazie al matematico britannico Alan Turing (Londra, 23 giugno 1912 – Wilmslow, 7 giugno 1954), quando alla fine del 1940 costruisce un dispositivo elettromeccanico capacedi decifrare i messaggi di Enigma, a sua volta la macchina di lettura e decifrazione dei codici segreti di Hitler ideata da  Arthur Scherbius nel 1918. Successivamente sarà la NASA ad utilizzare una sorta di primitivo modello di intelligenza artificiale nella missione Apollo 11 del 1969. Già a partire dal 1982 Honda inizia a sviluppare robot che camminano autonomamente, saltano e stanno in equilibrio, ma solo con la nascita di Tesla arriveremo alla quasi totale perfezione di movimento. Ma se questo non rendesse sufficientemente l'idea di cosa stiamo parlando, basta dire che oggi un normalissimo smartphone da poche centinaia di Euro possiede 1.300 volte tanto la capacità di calcolo del computer di bordo della missione Apollo. E questo potrebbe essere un altro dei problemi che potrebbero affacciarsi nei prossimi anni. L'equivalente di un'indigestione globale di dati che potrebbe portare i modelli di intelligenza artificiale a commettere degli errori, in un periodo dove la nostra specie basa il proprio modo di ragionare su un numero di parametri sempre minore rendendoci di fatto meno predittivi e quindi potenzialmente meno responsabili. Già a partire da "The Big Data Challenge" si parla della difficoltà degli algoritmi nel gestire l'esponenziale crescita della quantità di dati presenti nel World Wide Web. Ma più di "quantità" l'intelligenza artificiale dovrebbe alimentarsi di "qualità", di dati significativi e soprattutto reali. Mentre in passato i dati venivano gelosamente conservati nei singoli database di istituzioni e aziende, oggi sono infatti riversati quasi interamente nel "cloud" (nuvola di dati), ovvero quei milioni di server collegati tra loro e distribuiti nell'intera superficie planetaria. Attualmente i dati presenti in Internet sono oltre quaranta miliardi di miliardi (un quinto del numero di stelle presenti nella nostra galassia), e l'intelligenza artificiale li può raggiungere tutti con rischio però di generare una sorta di "confusione mentale". E poi c'è pure quella "Black Box", un sistema simile proprio ad una scatola nera di un moderno aereo di linea, il cui funzionamento interno non è visibile o addirittura ignoto anche agli esperti. E questo solo per quanto riguarda l'aspetto tecnico e scientifico, ma non dobbiamo dimenticare anche il campo dell'etica e della sicurezza che questa nuova realtà potrebbe influenzare negativamente. Uno degli organismi più attivi in questo argomento è la "Pontificia Accademia per la Vita" che nel 2020, in netto anticipo rispetto all'esplosione di questo contesto, ne inaugura il "Rome Call for AI Ethics"  insieme a Microsoft, IBM, Fao e il Dipartimento italiano dell’innovazione tecnologica, al fine di alzare i paletti oltre i quali i vantaggi potrebbero diventare svantaggi proprio per la stessa nostra specie. Quindi assieme al neologismo di Intelligenza Artificiale nasce anche quello di Algoretica e Antropocentrismo, al fine di prevenire un impatto negativo sui diritti umani. e quella "civiltà dello spirito" che Papa Francesco difende.
Tre le aree di impatto del documento: Etica: "Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti". Istruzione: "Trasformare il mondo attraverso l'innovazione dell'intelligenza artificiale significa impegnarsi a costruire un futuro per e con le generazioni più giovani". Diritti: "Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale al servizio dell’umanità e del pianeta deve riflettersi in normative e principi che proteggano le persone, in particolare quelle deboli e svantaggiate, e gli ambienti naturali". Sono invece sei i principi fondamentali:  1 Trasparenza "I sistemi di intelligenza artificiale devono essere comprensibili a tutti". 2 Inclusione "Questi sistemi non devono discriminare nessuno perché ogni essere umano ha pari dignità". 3 Responsabilità "ci deve sempre essere qualcuno che si assume la responsabilità di ciò che fa una macchina". 4 Imparzialità "I sistemi di intelligenza artificiale non devono seguire o creare pregiudizi". 5 Affidabilità "L'intelligenza artificiale deve essere affidabile". 6 Sicurezza e privacy "Questi sistemi devono essere sicuri e rispettare la privacy degli utenti". Infine, quello che spaventa Padre Paolo Benanti (docente alla Pontificia Università Gregoriana e presso l’Università di Seattle nonchè consigliere di Papa Francesco) non è infatti l'intelligenza artificiale in se, ma la stupidità umana che potrebbe di fatto lasciarsi prendere la mano. Mentre il Mons. Vincenzo Paglia ci invita a riconoscere, e poi ad assumersi, la responsabilità che deriva dalla moltiplicazione delle opzioni rese possibili dalle nuove tecnologie digitali.
Ma a che punto è il livello di intelligenza artificiale rispetto a quella umana? Se fino a qualche anno fa Chapt GPT (il chatterbot di OpenAi) rispondeva a "nero" alla nostra domanda "di che colore era il cavallo bianco di Napoleone Bonaparte", oggi risponde semplicemente "bianco". Aveva già il senso dello Humor? Cosa che sarebbe di per sé piuttosto esplicativa sull'inquietante futuro di una possibile autocosapevolezza. O è semplicemente inciampata dritta nel gioco di parole?
Restando nella tematica evolutiva di questa tecnologia dobbiamo sicuramente accettare che gli americani sono avanti in questo settore, da sempre pionieristi in qualsiasi campo che includa il potere e la supremazia. Lo hanno fatto con IBM, che ha sviluppato il modo di usare grandi quantità di dati, e con Apple che ne ha concesso l'uso democratico a livello globale (in cambio di dati). Tuttavia i cinesi e i coreani non sono rimasti a guardare, e lo hanno fatto fin troppo bene migliorando nel tempo le tecnologie occidentali trasformando Samsung ,Huawei, Honda e Byd, per citarne alcune, leader indiscussi nel loro mercato di appartenenza e nella corsa verso l'intelligenza artificiale. E questo si riflette inevitabilmente non solo in ambito finanziario, ma anche nel contesto ben più fragile degli equilibri geopolitici internazionali generando un'ulteriore dose di tensione e di competitività tra occidente e oriente, interconettendosi di fatto anche con la spaccatura dell'asse quasi verticale che comprende i recenti conflitti tra Russia e Ucraina e le inarrestabili ostilità tra Iran e Israele. In un contesto geopolitico così critico e instabile, il ruolo dell'intelligenza artificiale si inserisce e si sviluppa soprattutto nel contesto militare, come del resto è sempre accaduto, e questo potrebbe portare a una rivalutazione del concetto di deterrenza (ad esempio nucleare) e alla nascita di una non meno insidiosa "era della deterrenza informatica".
​© RIPRODUZIONE RISERVATA
VERSIONE EDITORIALE
https://www.ohimag.com/redazione/il-ruolo-dellintelligenza-artificiale-nella-deterrenza-militare
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Impatto geopolitico sul mercato automobilistico

14/1/2025

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​​Stefano Mitrione _ OHi Mag | 14/01/2025
L'intelligenza artificiale, la robotica e la stampa 3D permettono oggi di raggiungere la compensazione degli investimenti iniziali in tempi molto più brevi. Oltremodo, per quanto riguarda l'automotive, le case automobilistiche favoriscono tra di loro la condivisione di molte parti dei loro modelli, se non intere piattaforme, aumentandone ulteriormente i vantaggi in ordine di scala.
Condizioni ideali per trasformare un oggetto di massa in un oggetto d'elite.
E i conti tornano dal momento in cui costruire meno auto, con ricavi decisamente più alti, conviene di più che costruirne molte con ricavi risicati all'osso. E in un mondo sempre più geopolitico non poteva che affacciarsi la sua declinazione "geoconsumistica" dove il valore aggiunto non è più l'identità storica dell'industria, ma esclusivamente quella logotipica; l'enfasi e la spettacolarizzazione del marchio di fabbrica, stemma o baluardo di un modo di apparire più che di essere.
A questo punto le strategie commerciali, e di conseguenza quelle finanziarie, sono libere di decidere da dove ricavarne il profitto maggiore: se da una massa sempre più impoverita o da un'elite sempre più ricca. Secondo la matematica del mondo di oggi conviene di gran lunga puntare sulla seconda per molteplici motivi, tra i quali un post-vendita meno impattante; ad esempio nei richiami. Basti ricordare quanto costò il "dieselgate" al gruppo volkswagen. 
Inoltre l'industria non ha niente a che fare con le ideologie dei diritti umani, né con l'etica e tantomeno con la morale. L'"auto del popolo" aveva ragion d'essere quando questo modello industriale faceva grandi numeri, quando le automobili erano costituite da molte meno componenti, ma soprattutto quando i beni di consumo si acquistavano in contanti e non a rate.
Le nuove generazioni vivono all'interno di una bolla temporale chiusa, schiacciata tra un passato sempre più ininfluente e un futuro sempre più incerto, e dove l'accessibilità alla finanza è delegata quasi esclusivamente al debito. Ragion per cui non ha più senso costruire automobili iconiche frutto di un lungo percorso storico ed estetico, ma automobili che si esprimono quasi esclusivamente nel proprio presente.
E questo genera sicuramente il disorientamento di chi ancora non ha ben compreso che il nostro mondo sta subendo una radicale trasformazione geopolitica oltre che tecnologica.
Il concetto di "fordismo" dove l'automobile avrebbe cambiato la vita a intere società, o quello di Volkswagen che addirittura ne evocava il significato all'interno dello stesso binomio del marchio di fabbrica, o quello delle super utilitarie italiane che nel boom economico avevano reso accessibile l'automobile a tutti, ebbene questo concetto non era di proprietà del popolo, ma del capitalismo. Nulla da rivendicare quindi, al popolo non spetta nessun diritto nella scelta del proprio modo di spostarsi. L'automobile è un bene di lusso perché sostituibile con altre forme di mobilità più accessibile e soprattutto meno impattanti.
Probabilmente se eravamo più saggi avremo evitato di indebitarci fino al collo dando libero sfogo a modelli finanziari al limite della ritorsione. Se prima di acquistare l'automobile avessimo messo da parte l'intero suo valore, come facevano i nostri padri o inoltri nonni, oggi le automobili costerebbero meno e sarebbero alla portata di tutti. Quello che ci impoverisce maggiormente non è la mancanza di denaro, ma la mancanza di percezione del tempo. Bill Gates ha ragione: non è ricco chi ha molto denaro, ma chi ha un progetto per produrlo.
​​​​© RIPRODUZIONE RISERVATA
VERSIONE EDITORIALE
​https://www.ohimag.com/redazione/impatto-geopolitico-sul-mercato-automobilistico
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Considerazioni sul disagio sociale nelle città

14/1/2025

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​​Stefano Mitrione _ OHi Mag | 14/01/2025
Pietro, studente di giurisprudenza all'università di Bologna, ci spiega come il degrado sociale della città ha subito un'impennata già a partire dagli anni successivi alla pandemia. E più precisamente a partire dal 2022, quando la povertà e il disagio sociale che ne è derivato si sono dimostrati più incisivi in una città dominata da cantieri inoperativi, vagabondaggio e criminalità. 
Soprattutto nelle vie centrali ai bordi della Bologna bene e dello shopping, ma anche alla stazione centrale, uno strato sociale infimo di non trascurabile entità demografica, si prepara per superare la notte tra cartoni, piaghe, e droga.
I negozianti non lo vogliono davanti alle loro vetrine ed ecco spuntare appuntite piramidi d'acciaio nel massetto di marmo antistante, mentre l'amministrazione comunale provvede con panchine pubbliche dotate di braccioli anti bivacco.
Le mense della Caritas non riescono a soddisfare la domanda sempre più crescente di un fenomeno ormai fuori controllo. E qui siamo a Bologna, in una città tutto sommato tranquilla, non certo una delle popolose metropoli dove la situazione è sicuramente peggiore. Pietro non esce più di casa dopo il coprifuoco, il centro dopo le 20 si appresta a trasformasi in un campo di battaglia. Pietro però non è un ragazzo come molti, quelli con l'auricolare e lo smartphone che preferiscono l'assenza e la cecità sociale. Lui preferisce Tolstoj, un pantalone principe di Galles uscito da chissà quale substrato della moda, e un paio di occhiali alla Potter. Una preda più che un predatore. A difenderlo è il suo senso dell'osservazione, non gli sfugge niente neppure la più piccola screpolatura della pelle di chi è costretto a vivere nel freddo della notte. Più volte mi chiedo se sono io a intervistare lui o lui a profilare me. Chi non vive nelle città non può accorgersi di quello che negli ultimi due anni sembra aver subito un'accelerazione. Chi vive nei piccoli borghi vede una realtà ben diversa quindi fa di tutto per difenderla, non volendo accettare che il mondo sta cambiando radicalmente indipendentemente dagli stereotipi tecnologici della mobilità e della transizione energetica in generale. Il suo piccolo mondo è un abito sartoriale cucitogli addosso, funziona così bene che ne rifiuta il cambio. E per giustificarsi addita i media colpevoli di distorcere la realtà dei fatti, quella realtà che a lui va bene così. "Tutto bello", recita il claim di una pubblicità di streaming calcistico; "Insegui i tuoi sogni" recita un'altro di automotive. Questi sono i media che ci drogano, non il giornalismo. Altro che fentanyl; a noi tossicoccidentali bastano quattro parole in croce a convincerci di comprare il panettone dello chef o un pandoro colore rosa. Poi quel "io non seguo le mode", "non mi vaccino perché..." o "diesel per sempre", è solo un tentativo come un altro per sentirsi meno colpevoli, meno occidentali, meno carnivori, meno ipocriti.
E invece lo siamo tutti: lo stereotipo della pecora fuori dal gregge andrebbe proprio a cozzare con il concetto stesso di società civile e dorata che tanto abbiamo sposato. Tu non lo sei? Guardati attorno, osserva ogni minimo dettaglio di quello che possiedi o che stai ancora pagando, e ora immagina tutto quello che ti circonda oltre le mura domestiche. Tutto questo è peggio del fentanyl.
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​VERSIONE EDITORIALE
https://www.ohimag.com/stefano-mitrione-ohi-mag-geopolitica-e-relazioni-internazionali/considerazioni-sul-disagio-sociale-nelle-citta
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Il giornalismo nell'era della cultura di massa

4/1/2025

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Photo credit: Thomas Lin
Stefano Mitrione _ L'Azione n°___ | 05/01/2025
​Parlare di giornalismo è oggi quasi anacronistico perché, a mancare, è proprio la temporalità, lo scandire dei giorni nel preciso ordine cronologico dell'informazione che si espande a macchia d'olio in un ambiente fuori controllo, dalle dimensioni ormai diventate incommensurabili. Oggi si parla di un flusso continuo della notizia che assume un valore pressoché infinito (e indefinito) nelle dashboard di ventidue miliardi di "telefoni portatili". Informazioni non più cristallizzate nell'inchiostro della carta di giornale, ma diluite nei pixel del Web. Notizie che possono essere facilmente reinterpretate da altre fonti, purché non appartengano alla stessa dimensione degli organi ufficiali, ma al dibattito collaterale nella sfera dei social network.
Gian Antonio Stella, editorialista del Corriere della Sera, ha illustrato lo stato di salute del giornalismo nell'era infodemica, neologismo battezzato dall'Oms a partire da quello spartiacque pandemico che, di fatto, ha riformato i processi editoriali e di percezione dei fatti di cronaca già a partire dal 2020. E nel 2024, servono ancora i giornali? Servono ancora i giornalisti? "Il buon giornalismo ha più senso oggi che ieri", ha risposto Stella. Ai tempi della carta le false notizie arrivavano al lettore solo dopo parecchi anni. Oggi sono più veloci di quelle vere perché dicono esattamente quello che il pubblico vuole sentire, non quello che accade realmente. Notizie non necessariamente completamente false, ma ancora più ingannevoli perché contengono pattern assolutamente verosimili ma che non sono altro che i falsi garanti di un processo disinformativo ben costruito. 
Il movente? "Rende di più cavalcare il falso che la verità", ha sottolineato Lucia Bellaspiga di Avvenire. E, secondo la mia percezione, la gente ha una cinica predilezione per il “marcio”. Le buone notizie non divertono più. E se devi spalleggiare con l'autorevolezza degli editori già conclamati, l'unica "strategia di guerra" è quella di usare "armi deontologiche" completamente diverse.
Quello che ci deve spaventare è la mancanza di un'attitudine alla cultura, non alla tecnologia. Oppure quello che viene fin troppo frettolosamente definito come "Main Stream" è piuttosto una storia editoriale, un progetto di lunga data che ha visto il susseguirsi di professionisti che, se anche non necessariamente allineati all'anima stessa della testata, hanno comunque tenuto fede alle proprie responsabilità deontologiche cercando di inseguire sempre i fatti reali al fine di creare una propria e solida reputazione di affidabilità. Perché non è vero che scrivere falsità è facile come scrivere il vero, almeno nel giornalismo serio. Esiste la gogna, e il danno economico, della "querela temeraria".
Smettiamo di parlare di giornalisti asserviti al sistema. Dietro c'è un mestiere tutt'altro che redditizio e soprattutto minato da pericoli giudiziari, oltre che sul campo dei fatti trattati. Basti pensare al giornalismo di guerra o di mafia, ma anche a quello in campo farmaceutico ostacolato da muri quasi impenetrabili da cui è facile cadere. Asservito, al denaro derivato dalla pubblicità, è chi ogni giorno apre testate all'unico scopo di promuovere unicamente quello che il pubblico vuole leggere, e non quello che vuole comprendere al di sopra del proprio "credo spirituale e ideologico". Asservito, al potere del dominio territoriale, è quell'organo governativo straniero che vuole destabilizzare la società avversaria per un fine geopolitico. Le parole hanno sempre un peso preciso e il giornalismo è ancora vivo. Diverso è il mare in cui galleggia che è molto più viscoso.
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IL GIORNALISMO NELL'ERA DELLA CULTURA DI MASSA (CRITICA)

VERSIONE INTEGRALE
Stefano Mitrione _ 05/01/2025
Parlare di giornalismo è oggi quasi anacronistico perché, a mancare, è proprio la temporalità, lo scandire dei giorni nel preciso ordine cronologico dell'informazione che si espande a macchia d'olio in un ambiente fuori controllo, dalle dimensioni ormai diventate incommensurabili. Estinti quegli inossidabili cinquantacinque minuti che fino a qualche decennio fa dividevano la scrittura dalla stampa, oggi si parla di un flusso continuo della notizia che assume un valore pressoché infinito (e indefinito) nelle dashboard di ventidue miliardi di "telefoni portatili". Informazioni non più cristallizzate nell'inchiostro della carta di giornale, ma diluite nei pixel del Web. Notizie che possono essere facilmente reinterpretate da altre fonti, purché non appartengano alla stessa dimensione degli organi ufficiali, ma al dibattito collaterale nella sfera dei social network. Gian Antonio Stella, editorialista del Corriere della Sera, ci illustra lo stato di salute del giornalismo nell'era infodemica, neologismo battezzato dall'OMS a partire da quello spartiacque pandemico che, di fatto, ha riformato i processi editoriali e di percezione dei fatti di cronaca già a partire dal 2020.
E nel 2024, servono ancora i giornali? Servono ancora i giornalisti? "Il buon giornalismo ha più senso oggi che ieri", ha risposto Gian Antonio Stella. Ai tempi della carta le false notizie arrivavano al lettore solo dopo parecchi anni. Oggi sono più veloci di quelle vere perché dicono esattamente quello che il pubblico vuole sentire, non quello che accade realmente. Notizie non necessariamente completamente false, ma ancora più ingannevoli perché contengono pattern assolutamente verosimili ma che non sono altro che i falsi garanti di un processo disinformativo ben costruito. Il movente? "Rende di più cavalcare il falso che la verità", ha sottolineato Lucia Bellaspiga di Avvenire. E secondo la mia percezione la gente ha una cinica predilezione per il marcio. Le buone notizie non divertono più. E se devi spalleggiare con l'autorevolezza degli editori già conclamati, l'unica "strategia di guerra" è quella di usare "armi deontologiche" completamente diverse. Viceversa il buon giornalismo cerca di fare chiarezza piuttosto che generare confusione. Lo fa con dati, numeri e fatti. Del resto omettere o manipolare la verità è altrettanto naturale in un mondo di briganti, e se l'informazione oggi vale più dell'oro, il crimine è servito: la disinformazione uccide molte vite umane, non solo la credibilità stessa di un intero sistema. Così tra il pubblico si è creata una diffidenza ormai persistente, mentre un incerto "l'ho letto su Facebook " diventa un definitivo "non credo più a nessuno". Complici sono gli stessi consumatori del fast food della moderna informazione, quelli che si nutrono di titoli ad effetto, letture frammentate e dove l'approfondimento delle fonti non viene assolutamente considerato al grido di "l'ho letto su... e questo mi basta". Viviamo nell'era del marketing, dei brand, del merchandising e non in quella di chi, scrivendo "solo su un giornale", ci mette la faccia e non un logo. Così il giornalismo sembra defunto nella misura con cui diamo più valore a un simbolo, o a un marchio, piuttosto che a un individuo. Non è morto il giornalismo, è morto il senso di umanità, di civiltà. Secondo Lucia Bellaspiga bisogna avere l'umiltà di tentare di cercare la verità, senza voler rincorrere a tutti i costi il fatto di cronaca, o lo scoop per antonomasia. Meglio soffermarsi sul commento, sull'approfondimento interpersonale piuttosto che sulla freschezza della notizia. Ma ritornando a quello che di vero c'è nella notizia, verrebbe da aggiungere che non sempre i nomi più blasonati sono i buoni. E questi giornalisti possono creare più danni alla società di una piccola testata emergente che cerca lettori con notizie fuorvianti. Siamo umani e a volte a prevalere è l'ego, non il raziocinio.
"Un bambino costretto a fare il vaccino muore" a dirlo è stato Caserta Sera al tempo della caccia alle streghe, ai cattivi del Big Pharma e ai corrotti di governo. Una notizia ovviamente diventata virale e soprattutto credibile, data la paura sui vaccini che andava diffondendosi. La gente voleva sentire queste notizie, perché così poteva identificare meglio un male troppo invisibile da poter essere evitato. Notizia prive di evidenze, di prove, ma soprattutto di un riferimento ad una persona reale. Solo dopo un costante martellamento telefonico alla redazione da parte di Michelangelo Coltelli di Butac, ricorda Stella, venne alla luce la verità: il bambino era frutto della fantasia del giornalista. Un fine giustificato da mezzi incongrui per un reato tra i peggiori secondo la legislazione internazionale, europea e nazionale del giornalismo: inventarsi la fonte. E questo è solo la punta di un iceberg che troppo spesso resta sommerso in quella "poltiglia di balle" che è diventata un mercato a sé, al di sopra del famigerato "pensiero unico" la cui colpa è quella di essere palesemente drogato da allucinazioni mediatiche.
O come nel caso di Eluana Englaro: era diventato solo una questione di spina, da staccare. Ma bastava andare a trovarla a casa sua, ribadisce Bellaspiga che l'ha fatto ben quattro volte, per accorgersi che l'unica spina che si poteva staccare era quella della TV. E non era affatto scarnificata, tumefatta e piena di piaghe. Differente era il caso di Piergiorgio Welby, lui si era veramente attaccato ad una macchina, le persone non sono incasellabili in storie comuni. E questa è reputazione di affidabilità, quella di raccontare i fatti, non fare titoli sensazionalistici o politici.
Un altro caso è quello di Li Wenliang, l'oftalmologo cinese che si accorse della pericolosità della virulenza della Sars-Cov 2 quando ancora l'OMS garantiva che non avrebbe varcato i confini territoriali di Wuhan, e di quella lettera in cui riconosceva le sue colpe per aver procurato un falso allarme. Avvenire, spiega Bellaspiga, fu l'unica testata a non diffondere avventatamente la notizia, e fece bene perché il contenuto della lettera, troppo lungo da essere stato verosimilmente formulato nelle condizioni cliniche in cui versava Wenliang in quei giorni, era stato imposto e circuito dalle stesse autorità locali nel tentativo di alleviare le responsabilità cinesi dai gravi fatti accaduti.
E così è stato, chi aveva già diffuso queste falsità dovette poi ammettere di avere sbagliato. La cautela a volte ripaga il silenzio stampa. Questi sono alcuni dei casi più emblematici in cui si concretizza la reputazione di affidabilità di chi descrive i fatti e di chi li pubblica. Viceversa se pubblichi una foto di un tramonto, aggiunge Bellaspiga di Avvenire, ricevi settecento commenti di insulto perché ti trovi dalla parte dei "poteri forti", perché le scie di condensazione degli aerei transitati per caso nel campo dell'inquadratura, sono invece scie chimiche e vanno denunciate se il giornalista non è accondiscendente. Partiamo invece dal significato delle parole che troppo spesso diamo per scontate. Ad esempio, cosa significa giornalismo? Basta aprire la Treccani e scopriamo l'enorme responsabilità di questa parola che avvicina l'uomo alla luce della conoscenza, a Dio. Bellaspiga continua il suo viaggio narrativo in un tempo quasi preistorico ricordando quando si scriveva con i tasti delle lettere mancanti, solitamente le più usate come le "a" e le "e", aggiustate con la gomma da masticare. Allora i giornali gareggiano sulla qualità con mezzi poveri. Oggi il più bravo è quello che arriva prima e, a rimetterci, è il controllo della sintassi e ancor peggio quello delle fonti. Il cosiddetto " verba volant scripta manent " non ha più senso di esistere; se hai sbagliato di informare basta correggere in cloud e magicamente quello che avevi scritto qualche giorno prima smette di esistere. E poi c'è la percezione di quello che viene scritto: non è detto che tutti, pur sapendo scrivere e leggere, possano comprendere correttamente un contenuto articolato. È questo uno degli aspetti più insidiosi in fatto di disinformazione. Il ricevente deve essere sintonizzato all'emittente, viceversa il contenuto stesso rischia di essere frainteso e magari riconfezionato nei social con un fine completamente diverso. Una sorta di disinformazione bidirezionale, sia da parte di organi di stampa senza tanti scrupoli, sia da parte di una platea incolta alla ricerca di una qualsiasi conferma al proprio credo ideologico. A questo punto l'unico mezzo di contrasto sono i dati e i numeri reali, chiosa Stella. Ad esempio, se la percezione è che in Italia ci sono troppi omicidi e le strade sono sempre meno sicure per colpa dei migranti, la verità è invece che siamo quattordici volte più al sicuro che in USA e molto più sicuri rispetto al nostro stesso passato. Il problema resta invece che ben il settanta per cento dei giovani, compresa una considerevole porzione di adulti che si credono ancora tali, si informa esclusivamente attraverso i social, e non dalle pagine ufficiali di chi scrive le notizie, da chi le confeziona nuovamente alterandone, in buona o cattiva fede, la sostanza dei fatti. Si, "c'è più bisogno oggi di giornalismo che ieri", ha sottolineato con fermezza Stella. C'è un urgente bisogno di una rilettura fondamentale del significato di "informazione comune" aggiunge subito dopo Bellaspiga. Oggi quasi tutti sanno tagliare un video digitando velocemente testi di supporto senza capo e ne coda sulla tastiera del proprio smartphone. Quello che ci deve spaventare è la mancanza di un'attitudine alla cultura, non alla tecnologia. Oppure quello che viene fin troppo frettolosamente definito come "Main Stream" è piuttosto una storia editoriale, un progetto di lunga data che ha visto il susseguirsi di professionisti che, se anche non necessariamente allineati all'anima stessa della testata, hanno comunque tenuto fede alle proprie responsabilità deontologiche cercando di inseguire sempre i fatti reali al fine di creare una propria e solida reputazione di affidabilità. Perché non è vero che scrivere falsità è facile come scrivere il vero, almeno nel giornalismo serio. Esiste la gogna, e il danno economico, della "Querela temeraria". Stella ne ha ricevute più di cento e le ha vinte tutte. Quello che invece auspicherebbe è che questo non continui ad essere il pretesto politico per rallentare le indagini giornalistiche fino alla risoluzione legale delle rispettive responsabilità. Un limbo che di fatto vede legare le mani al percorso della notizia e dove a pagare, in caso di condanna, è solo il giornalista e non il politico. Quindi smettiamo di parlare di giornalisti asserviti al sistema; dietro c'è un mestiere tutt'altro che redditizio e soprattutto minato da pericoli giudiziari, oltre che sul campo dei fatti trattati. Basti pensare al giornalismo di guerra o di mafia, ma anche a quello in campo farmaceutico ostacolato da muri quasi impenetrabili da cui è facile cadere. Asservito, al denaro derivato dalla pubblicità, è chi ogni giorno apre testate all'unico scopo di promuovere unicamente quello che il pubblico vuole leggere, e non quello che vuole comprendere al di sopra del proprio "credo spirituale e ideologico". Asservito, al potere del dominio territoriale, è quell'organo governativo straniero che vuole destabilizzare la società avversaria per un fine geopolitico. Le parole hanno sempre un peso preciso e il giornalismo è ancora vivo. Diverso è il mare in cui galleggia che è molto più viscoso.
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