Internet distruggerà la democrazia? E l'intelligenza artificiale cosa distruggerà? Domande ormai sempre più ricorrenti ma che hanno origini in tempi molto più remoti di quanto si possa immaginare. Perché quella che oggi chiamiamo A.I. ha avuto origine già dalle prime scritture sanscrite. Ed è la nostra stessa evoluzione di specie che ci ha portato a questa nuova era della nostra specie che vogliamo credere non appartenere alla nostra esistenza umana ma che invece non potrebbe essere altro che una sua naturale trasformazione come tante altre avvenute in passato. Mario Coletti, professore all'Università IULM di Milano ma con residenza a Londra e una scia di successi nel campo delle Digital Company come Nextatlas, Capgemini Consulting, Geometry Global, Ogilvy, WPP e Partner, Sparco S.p.A., ha ben chiaro il percorso culturale che ci ha portati ad una radicale impronta evolutiva della nostra civiltà. Da cultura scritta a cultura visiva; così un'altra volta nella storia i libri stanno quasi scomparendo come già avvenuto tra il 1.200 e 1.600 A.C. Quindi dallo scritto al verbale al visivo. Oggi le nuove generazioni comunicano e apprendono prevalentemente da un immenso flusso continuo di immagini e dati multimediali totalmente anacronistici, sulla base matematica di un codice binario invisibile alla cognizione umana (quello che contiene solo numeri 1 e 0 in un ordine apparentemente casuale). Ma questo è un bene o un male? Potrà l'intelligenza artificiale minacciare, o addirittura sostituire, la nostra specie? Come per tutte le innovazioni è un bene quando sarà usata per il fabbisogno umano, inteso come capitale umano. Poi ovviamente c'è chi potrà usarla nella sua declinazione malevola. Ma per poter capire cos'è realmente l'Intelligenza Artificiale dobbiamo prima comprendere cos'è l'intelligenza. E la risposta sembra essere ovvia: è quella capacità arcaica di risolvere un problema. E questo non solo per quanto riguarda noi, ma tutto il mondo animale e biologico, mentre l'intelligenza artificiale è una "scienza derivata" che si occupa di sviluppare altre macchine intelligenti. Quindi, alla base di qualsiasi concetto di intelligenza, ci sono tre capacità cognitive imprescindibili: apprendere, ragionare e migliorare. Con la differenza che mentre l'intelligenza umana è emanata su processi organici deperibili, quella artificiale è supportata da cellule inorganiche indistruttibili. E questo può metterci di fronte a qualche supposizione etica sicuramente scomoda. Ma allora perché intraprendere una strada così rischiosa? Per il semplice motivo che l'uomo non può fare a meno della sua indole esplorativa, e non saremmo quello che siamo oggi se non fosse stato così. È quasi un'inerzia, una forma simile a quella di gravità, quella che ci attrae verso il progresso. Contrariamente saremo rimasti all'età della pietra e non avremmo mai potuto comunicare tra di noi alla velocità di un semplice battito di polpastrello sul vetro di uno smartphone., evolverci guardando nelle profondità del cosmo alla ricerca di una risposta alla domanda: chi siamo e perchè esistiamo. Ma i vantaggi dell'intelligenza artificiale sono altrettanto interessanti come quello di ridurre la fatica umana e allungare la vita. Tra gli svantaggi, oltre quello più remoto di una sostituzione di specie c'è quello più realistico della tutela dei dati personali. E alla domanda se stiamo correndo troppo questa nuova tecnologia tanto nuova non è; dobbiamo andare indietro di un bel po' di decenni per scoprire una verità ben diversa. La storia dell'intelligenza artificiale inizia a fare i suoi primi passi nel nostro mondo grazie al matematico britannico Alan Turing (Londra, 23 giugno 1912 – Wilmslow, 7 giugno 1954), quando alla fine del 1940 costruisce un dispositivo elettromeccanico capacedi decifrare i messaggi di Enigma, a sua volta la macchina di lettura e decifrazione dei codici segreti di Hitler ideata da Arthur Scherbius nel 1918. Successivamente sarà la NASA ad utilizzare una sorta di primitivo modello di intelligenza artificiale nella missione Apollo 11 del 1969. Già a partire dal 1982 Honda inizia a sviluppare robot che camminano autonomamente, saltano e stanno in equilibrio, ma solo con la nascita di Tesla arriveremo alla quasi totale perfezione di movimento. Ma se questo non rendesse sufficientemente l'idea di cosa stiamo parlando, basta dire che oggi un normalissimo smartphone da poche centinaia di Euro possiede 1.300 volte tanto la capacità di calcolo del computer di bordo della missione Apollo. E questo potrebbe essere un altro dei problemi che potrebbero affacciarsi nei prossimi anni. L'equivalente di un'indigestione globale di dati che potrebbe portare i modelli di intelligenza artificiale a commettere degli errori, in un periodo dove la nostra specie basa il proprio modo di ragionare su un numero di parametri sempre minore rendendoci di fatto meno predittivi e quindi potenzialmente meno responsabili. Già a partire da "The Big Data Challenge" si parla della difficoltà degli algoritmi nel gestire l'esponenziale crescita della quantità di dati presenti nel World Wide Web. Ma più di "quantità" l'intelligenza artificiale dovrebbe alimentarsi di "qualità", di dati significativi e soprattutto reali. Mentre in passato i dati venivano gelosamente conservati nei singoli database di istituzioni e aziende, oggi sono infatti riversati quasi interamente nel "cloud" (nuvola di dati), ovvero quei milioni di server collegati tra loro e distribuiti nell'intera superficie planetaria. Attualmente i dati presenti in Internet sono oltre quaranta miliardi di miliardi (un quinto del numero di stelle presenti nella nostra galassia), e l'intelligenza artificiale li può raggiungere tutti con rischio però di generare una sorta di "confusione mentale". E poi c'è pure quella "Black Box", un sistema simile proprio ad una scatola nera di un moderno aereo di linea, il cui funzionamento interno non è visibile o addirittura ignoto anche agli esperti. E questo solo per quanto riguarda l'aspetto tecnico e scientifico, ma non dobbiamo dimenticare anche il campo dell'etica e della sicurezza che questa nuova realtà potrebbe influenzare negativamente. Uno degli organismi più attivi in questo argomento è la "Pontificia Accademia per la Vita" che nel 2020, in netto anticipo rispetto all'esplosione di questo contesto, ne inaugura il "Rome Call for AI Ethics" insieme a Microsoft, IBM, Fao e il Dipartimento italiano dell’innovazione tecnologica, al fine di alzare i paletti oltre i quali i vantaggi potrebbero diventare svantaggi proprio per la stessa nostra specie. Quindi assieme al neologismo di Intelligenza Artificiale nasce anche quello di Algoretica e Antropocentrismo, al fine di prevenire un impatto negativo sui diritti umani. e quella "civiltà dello spirito" che Papa Francesco difende. Tre le aree di impatto del documento: Etica: "Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti". Istruzione: "Trasformare il mondo attraverso l'innovazione dell'intelligenza artificiale significa impegnarsi a costruire un futuro per e con le generazioni più giovani". Diritti: "Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale al servizio dell’umanità e del pianeta deve riflettersi in normative e principi che proteggano le persone, in particolare quelle deboli e svantaggiate, e gli ambienti naturali". Sono invece sei i principi fondamentali: 1 Trasparenza "I sistemi di intelligenza artificiale devono essere comprensibili a tutti". 2 Inclusione "Questi sistemi non devono discriminare nessuno perché ogni essere umano ha pari dignità". 3 Responsabilità "ci deve sempre essere qualcuno che si assume la responsabilità di ciò che fa una macchina". 4 Imparzialità "I sistemi di intelligenza artificiale non devono seguire o creare pregiudizi". 5 Affidabilità "L'intelligenza artificiale deve essere affidabile". 6 Sicurezza e privacy "Questi sistemi devono essere sicuri e rispettare la privacy degli utenti". Infine, quello che spaventa Padre Paolo Benanti (docente alla Pontificia Università Gregoriana e presso l’Università di Seattle nonchè consigliere di Papa Francesco) non è infatti l'intelligenza artificiale in se, ma la stupidità umana che potrebbe di fatto lasciarsi prendere la mano. Mentre il Mons. Vincenzo Paglia ci invita a riconoscere, e poi ad assumersi, la responsabilità che deriva dalla moltiplicazione delle opzioni rese possibili dalle nuove tecnologie digitali. Ma a che punto è il livello di intelligenza artificiale rispetto a quella umana? Se fino a qualche anno fa Chapt GPT (il chatterbot di OpenAi) rispondeva a "nero" alla nostra domanda "di che colore era il cavallo bianco di Napoleone Bonaparte", oggi risponde semplicemente "bianco". Aveva già il senso dello Humor? Cosa che sarebbe di per sé piuttosto esplicativa sull'inquietante futuro di una possibile autocosapevolezza. O è semplicemente inciampata dritta nel gioco di parole? Restando nella tematica evolutiva di questa tecnologia dobbiamo sicuramente accettare che gli americani sono avanti in questo settore, da sempre pionieristi in qualsiasi campo che includa il potere e la supremazia. Lo hanno fatto con IBM, che ha sviluppato il modo di usare grandi quantità di dati, e con Apple che ne ha concesso l'uso democratico a livello globale (in cambio di dati). Tuttavia i cinesi e i coreani non sono rimasti a guardare, e lo hanno fatto fin troppo bene migliorando nel tempo le tecnologie occidentali trasformando Samsung ,Huawei, Honda e Byd, per citarne alcune, leader indiscussi nel loro mercato di appartenenza e nella corsa verso l'intelligenza artificiale. E questo si riflette inevitabilmente non solo in ambito finanziario, ma anche nel contesto ben più fragile degli equilibri geopolitici internazionali generando un'ulteriore dose di tensione e di competitività tra occidente e oriente, interconettendosi di fatto anche con la spaccatura dell'asse quasi verticale che comprende i recenti conflitti tra Russia e Ucraina e le inarrestabili ostilità tra Iran e Israele. In un contesto geopolitico così critico e instabile, il ruolo dell'intelligenza artificiale si inserisce e si sviluppa soprattutto nel contesto militare, come del resto è sempre accaduto, e questo potrebbe portare a una rivalutazione del concetto di deterrenza (ad esempio nucleare) e alla nascita di una non meno insidiosa "era della deterrenza informatica". © RIPRODUZIONE RISERVATA VERSIONE EDITORIALE
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L'intelligenza artificiale, la robotica e la stampa 3D permettono oggi di raggiungere la compensazione degli investimenti iniziali in tempi molto più brevi. Oltremodo, per quanto riguarda l'automotive, le case automobilistiche favoriscono tra di loro la condivisione di molte parti dei loro modelli, se non intere piattaforme, aumentandone ulteriormente i vantaggi in ordine di scala. Condizioni ideali per trasformare un oggetto di massa in un oggetto d'elite. E i conti tornano dal momento in cui costruire meno auto, con ricavi decisamente più alti, conviene di più che costruirne molte con ricavi risicati all'osso. E in un mondo sempre più geopolitico non poteva che affacciarsi la sua declinazione "geoconsumistica" dove il valore aggiunto non è più l'identità storica dell'industria, ma esclusivamente quella logotipica; l'enfasi e la spettacolarizzazione del marchio di fabbrica, stemma o baluardo di un modo di apparire più che di essere. A questo punto le strategie commerciali, e di conseguenza quelle finanziarie, sono libere di decidere da dove ricavarne il profitto maggiore: se da una massa sempre più impoverita o da un'elite sempre più ricca. Secondo la matematica del mondo di oggi conviene di gran lunga puntare sulla seconda per molteplici motivi, tra i quali un post-vendita meno impattante; ad esempio nei richiami. Basti ricordare quanto costò il "dieselgate" al gruppo volkswagen. Inoltre l'industria non ha niente a che fare con le ideologie dei diritti umani, né con l'etica e tantomeno con la morale. L'"auto del popolo" aveva ragion d'essere quando questo modello industriale faceva grandi numeri, quando le automobili erano costituite da molte meno componenti, ma soprattutto quando i beni di consumo si acquistavano in contanti e non a rate. Le nuove generazioni vivono all'interno di una bolla temporale chiusa, schiacciata tra un passato sempre più ininfluente e un futuro sempre più incerto, e dove l'accessibilità alla finanza è delegata quasi esclusivamente al debito. Ragion per cui non ha più senso costruire automobili iconiche frutto di un lungo percorso storico ed estetico, ma automobili che si esprimono quasi esclusivamente nel proprio presente. E questo genera sicuramente il disorientamento di chi ancora non ha ben compreso che il nostro mondo sta subendo una radicale trasformazione geopolitica oltre che tecnologica. Il concetto di "fordismo" dove l'automobile avrebbe cambiato la vita a intere società, o quello di Volkswagen che addirittura ne evocava il significato all'interno dello stesso binomio del marchio di fabbrica, o quello delle super utilitarie italiane che nel boom economico avevano reso accessibile l'automobile a tutti, ebbene questo concetto non era di proprietà del popolo, ma del capitalismo. Nulla da rivendicare quindi, al popolo non spetta nessun diritto nella scelta del proprio modo di spostarsi. L'automobile è un bene di lusso perché sostituibile con altre forme di mobilità più accessibile e soprattutto meno impattanti. Probabilmente se eravamo più saggi avremo evitato di indebitarci fino al collo dando libero sfogo a modelli finanziari al limite della ritorsione. Se prima di acquistare l'automobile avessimo messo da parte l'intero suo valore, come facevano i nostri padri o inoltri nonni, oggi le automobili costerebbero meno e sarebbero alla portata di tutti. Quello che ci impoverisce maggiormente non è la mancanza di denaro, ma la mancanza di percezione del tempo. Bill Gates ha ragione: non è ricco chi ha molto denaro, ma chi ha un progetto per produrlo. © RIPRODUZIONE RISERVATA VERSIONE EDITORIALE
Pietro, studente di giurisprudenza all'università di Bologna, ci spiega come il degrado sociale della città ha subito un'impennata già a partire dagli anni successivi alla pandemia. E più precisamente a partire dal 2022, quando la povertà e il disagio sociale che ne è derivato si sono dimostrati più incisivi in una città dominata da cantieri inoperativi, vagabondaggio e criminalità. Soprattutto nelle vie centrali ai bordi della Bologna bene e dello shopping, ma anche alla stazione centrale, uno strato sociale infimo di non trascurabile entità demografica, si prepara per superare la notte tra cartoni, piaghe, e droga. I negozianti non lo vogliono davanti alle loro vetrine ed ecco spuntare appuntite piramidi d'acciaio nel massetto di marmo antistante, mentre l'amministrazione comunale provvede con panchine pubbliche dotate di braccioli anti bivacco. Le mense della Caritas non riescono a soddisfare la domanda sempre più crescente di un fenomeno ormai fuori controllo. E qui siamo a Bologna, in una città tutto sommato tranquilla, non certo una delle popolose metropoli dove la situazione è sicuramente peggiore. Pietro non esce più di casa dopo il coprifuoco, il centro dopo le 20 si appresta a trasformasi in un campo di battaglia. Pietro però non è un ragazzo come molti, quelli con l'auricolare e lo smartphone che preferiscono l'assenza e la cecità sociale. Lui preferisce Tolstoj, un pantalone principe di Galles uscito da chissà quale substrato della moda, e un paio di occhiali alla Potter. Una preda più che un predatore. A difenderlo è il suo senso dell'osservazione, non gli sfugge niente neppure la più piccola screpolatura della pelle di chi è costretto a vivere nel freddo della notte. Più volte mi chiedo se sono io a intervistare lui o lui a profilare me. Chi non vive nelle città non può accorgersi di quello che negli ultimi due anni sembra aver subito un'accelerazione. Chi vive nei piccoli borghi vede una realtà ben diversa quindi fa di tutto per difenderla, non volendo accettare che il mondo sta cambiando radicalmente indipendentemente dagli stereotipi tecnologici della mobilità e della transizione energetica in generale. Il suo piccolo mondo è un abito sartoriale cucitogli addosso, funziona così bene che ne rifiuta il cambio. E per giustificarsi addita i media colpevoli di distorcere la realtà dei fatti, quella realtà che a lui va bene così. "Tutto bello", recita il claim di una pubblicità di streaming calcistico; "Insegui i tuoi sogni" recita un'altro di automotive. Questi sono i media che ci drogano, non il giornalismo. Altro che fentanyl; a noi tossicoccidentali bastano quattro parole in croce a convincerci di comprare il panettone dello chef o un pandoro colore rosa. Poi quel "io non seguo le mode", "non mi vaccino perché..." o "diesel per sempre", è solo un tentativo come un altro per sentirsi meno colpevoli, meno occidentali, meno carnivori, meno ipocriti. E invece lo siamo tutti: lo stereotipo della pecora fuori dal gregge andrebbe proprio a cozzare con il concetto stesso di società civile e dorata che tanto abbiamo sposato. Tu non lo sei? Guardati attorno, osserva ogni minimo dettaglio di quello che possiedi o che stai ancora pagando, e ora immagina tutto quello che ti circonda oltre le mura domestiche. Tutto questo è peggio del fentanyl. © RIPRODUZIONE RISERVATA VERSIONE EDITORIALE
Parlare di giornalismo è oggi quasi anacronistico perché, a mancare, è proprio la temporalità, lo scandire dei giorni nel preciso ordine cronologico dell'informazione che si espande a macchia d'olio in un ambiente fuori controllo, dalle dimensioni ormai diventate incommensurabili. Oggi si parla di un flusso continuo della notizia che assume un valore pressoché infinito (e indefinito) nelle dashboard di ventidue miliardi di "telefoni portatili". Informazioni non più cristallizzate nell'inchiostro della carta di giornale, ma diluite nei pixel del Web. Notizie che possono essere facilmente reinterpretate da altre fonti, purché non appartengano alla stessa dimensione degli organi ufficiali, ma al dibattito collaterale nella sfera dei social network. Gian Antonio Stella, editorialista del Corriere della Sera, ha illustrato lo stato di salute del giornalismo nell'era infodemica, neologismo battezzato dall'Oms a partire da quello spartiacque pandemico che, di fatto, ha riformato i processi editoriali e di percezione dei fatti di cronaca già a partire dal 2020. E nel 2024, servono ancora i giornali? Servono ancora i giornalisti? "Il buon giornalismo ha più senso oggi che ieri", ha risposto Stella. Ai tempi della carta le false notizie arrivavano al lettore solo dopo parecchi anni. Oggi sono più veloci di quelle vere perché dicono esattamente quello che il pubblico vuole sentire, non quello che accade realmente. Notizie non necessariamente completamente false, ma ancora più ingannevoli perché contengono pattern assolutamente verosimili ma che non sono altro che i falsi garanti di un processo disinformativo ben costruito. Il movente? "Rende di più cavalcare il falso che la verità", ha sottolineato Lucia Bellaspiga di Avvenire. E, secondo la mia percezione, la gente ha una cinica predilezione per il “marcio”. Le buone notizie non divertono più. E se devi spalleggiare con l'autorevolezza degli editori già conclamati, l'unica "strategia di guerra" è quella di usare "armi deontologiche" completamente diverse. Quello che ci deve spaventare è la mancanza di un'attitudine alla cultura, non alla tecnologia. Oppure quello che viene fin troppo frettolosamente definito come "Main Stream" è piuttosto una storia editoriale, un progetto di lunga data che ha visto il susseguirsi di professionisti che, se anche non necessariamente allineati all'anima stessa della testata, hanno comunque tenuto fede alle proprie responsabilità deontologiche cercando di inseguire sempre i fatti reali al fine di creare una propria e solida reputazione di affidabilità. Perché non è vero che scrivere falsità è facile come scrivere il vero, almeno nel giornalismo serio. Esiste la gogna, e il danno economico, della "querela temeraria". Smettiamo di parlare di giornalisti asserviti al sistema. Dietro c'è un mestiere tutt'altro che redditizio e soprattutto minato da pericoli giudiziari, oltre che sul campo dei fatti trattati. Basti pensare al giornalismo di guerra o di mafia, ma anche a quello in campo farmaceutico ostacolato da muri quasi impenetrabili da cui è facile cadere. Asservito, al denaro derivato dalla pubblicità, è chi ogni giorno apre testate all'unico scopo di promuovere unicamente quello che il pubblico vuole leggere, e non quello che vuole comprendere al di sopra del proprio "credo spirituale e ideologico". Asservito, al potere del dominio territoriale, è quell'organo governativo straniero che vuole destabilizzare la società avversaria per un fine geopolitico. Le parole hanno sempre un peso preciso e il giornalismo è ancora vivo. Diverso è il mare in cui galleggia che è molto più viscoso. © RIPRODUZIONE RISERVATA IL GIORNALISMO NELL'ERA DELLA CULTURA DI MASSA (CRITICA)VERSIONE INTEGRALE Stefano Mitrione _ 05/01/2025 Parlare di giornalismo è oggi quasi anacronistico perché, a mancare, è proprio la temporalità, lo scandire dei giorni nel preciso ordine cronologico dell'informazione che si espande a macchia d'olio in un ambiente fuori controllo, dalle dimensioni ormai diventate incommensurabili. Estinti quegli inossidabili cinquantacinque minuti che fino a qualche decennio fa dividevano la scrittura dalla stampa, oggi si parla di un flusso continuo della notizia che assume un valore pressoché infinito (e indefinito) nelle dashboard di ventidue miliardi di "telefoni portatili". Informazioni non più cristallizzate nell'inchiostro della carta di giornale, ma diluite nei pixel del Web. Notizie che possono essere facilmente reinterpretate da altre fonti, purché non appartengano alla stessa dimensione degli organi ufficiali, ma al dibattito collaterale nella sfera dei social network. Gian Antonio Stella, editorialista del Corriere della Sera, ci illustra lo stato di salute del giornalismo nell'era infodemica, neologismo battezzato dall'OMS a partire da quello spartiacque pandemico che, di fatto, ha riformato i processi editoriali e di percezione dei fatti di cronaca già a partire dal 2020.
E nel 2024, servono ancora i giornali? Servono ancora i giornalisti? "Il buon giornalismo ha più senso oggi che ieri", ha risposto Gian Antonio Stella. Ai tempi della carta le false notizie arrivavano al lettore solo dopo parecchi anni. Oggi sono più veloci di quelle vere perché dicono esattamente quello che il pubblico vuole sentire, non quello che accade realmente. Notizie non necessariamente completamente false, ma ancora più ingannevoli perché contengono pattern assolutamente verosimili ma che non sono altro che i falsi garanti di un processo disinformativo ben costruito. Il movente? "Rende di più cavalcare il falso che la verità", ha sottolineato Lucia Bellaspiga di Avvenire. E secondo la mia percezione la gente ha una cinica predilezione per il marcio. Le buone notizie non divertono più. E se devi spalleggiare con l'autorevolezza degli editori già conclamati, l'unica "strategia di guerra" è quella di usare "armi deontologiche" completamente diverse. Viceversa il buon giornalismo cerca di fare chiarezza piuttosto che generare confusione. Lo fa con dati, numeri e fatti. Del resto omettere o manipolare la verità è altrettanto naturale in un mondo di briganti, e se l'informazione oggi vale più dell'oro, il crimine è servito: la disinformazione uccide molte vite umane, non solo la credibilità stessa di un intero sistema. Così tra il pubblico si è creata una diffidenza ormai persistente, mentre un incerto "l'ho letto su Facebook " diventa un definitivo "non credo più a nessuno". Complici sono gli stessi consumatori del fast food della moderna informazione, quelli che si nutrono di titoli ad effetto, letture frammentate e dove l'approfondimento delle fonti non viene assolutamente considerato al grido di "l'ho letto su... e questo mi basta". Viviamo nell'era del marketing, dei brand, del merchandising e non in quella di chi, scrivendo "solo su un giornale", ci mette la faccia e non un logo. Così il giornalismo sembra defunto nella misura con cui diamo più valore a un simbolo, o a un marchio, piuttosto che a un individuo. Non è morto il giornalismo, è morto il senso di umanità, di civiltà. Secondo Lucia Bellaspiga bisogna avere l'umiltà di tentare di cercare la verità, senza voler rincorrere a tutti i costi il fatto di cronaca, o lo scoop per antonomasia. Meglio soffermarsi sul commento, sull'approfondimento interpersonale piuttosto che sulla freschezza della notizia. Ma ritornando a quello che di vero c'è nella notizia, verrebbe da aggiungere che non sempre i nomi più blasonati sono i buoni. E questi giornalisti possono creare più danni alla società di una piccola testata emergente che cerca lettori con notizie fuorvianti. Siamo umani e a volte a prevalere è l'ego, non il raziocinio. "Un bambino costretto a fare il vaccino muore" a dirlo è stato Caserta Sera al tempo della caccia alle streghe, ai cattivi del Big Pharma e ai corrotti di governo. Una notizia ovviamente diventata virale e soprattutto credibile, data la paura sui vaccini che andava diffondendosi. La gente voleva sentire queste notizie, perché così poteva identificare meglio un male troppo invisibile da poter essere evitato. Notizia prive di evidenze, di prove, ma soprattutto di un riferimento ad una persona reale. Solo dopo un costante martellamento telefonico alla redazione da parte di Michelangelo Coltelli di Butac, ricorda Stella, venne alla luce la verità: il bambino era frutto della fantasia del giornalista. Un fine giustificato da mezzi incongrui per un reato tra i peggiori secondo la legislazione internazionale, europea e nazionale del giornalismo: inventarsi la fonte. E questo è solo la punta di un iceberg che troppo spesso resta sommerso in quella "poltiglia di balle" che è diventata un mercato a sé, al di sopra del famigerato "pensiero unico" la cui colpa è quella di essere palesemente drogato da allucinazioni mediatiche. O come nel caso di Eluana Englaro: era diventato solo una questione di spina, da staccare. Ma bastava andare a trovarla a casa sua, ribadisce Bellaspiga che l'ha fatto ben quattro volte, per accorgersi che l'unica spina che si poteva staccare era quella della TV. E non era affatto scarnificata, tumefatta e piena di piaghe. Differente era il caso di Piergiorgio Welby, lui si era veramente attaccato ad una macchina, le persone non sono incasellabili in storie comuni. E questa è reputazione di affidabilità, quella di raccontare i fatti, non fare titoli sensazionalistici o politici. Un altro caso è quello di Li Wenliang, l'oftalmologo cinese che si accorse della pericolosità della virulenza della Sars-Cov 2 quando ancora l'OMS garantiva che non avrebbe varcato i confini territoriali di Wuhan, e di quella lettera in cui riconosceva le sue colpe per aver procurato un falso allarme. Avvenire, spiega Bellaspiga, fu l'unica testata a non diffondere avventatamente la notizia, e fece bene perché il contenuto della lettera, troppo lungo da essere stato verosimilmente formulato nelle condizioni cliniche in cui versava Wenliang in quei giorni, era stato imposto e circuito dalle stesse autorità locali nel tentativo di alleviare le responsabilità cinesi dai gravi fatti accaduti. E così è stato, chi aveva già diffuso queste falsità dovette poi ammettere di avere sbagliato. La cautela a volte ripaga il silenzio stampa. Questi sono alcuni dei casi più emblematici in cui si concretizza la reputazione di affidabilità di chi descrive i fatti e di chi li pubblica. Viceversa se pubblichi una foto di un tramonto, aggiunge Bellaspiga di Avvenire, ricevi settecento commenti di insulto perché ti trovi dalla parte dei "poteri forti", perché le scie di condensazione degli aerei transitati per caso nel campo dell'inquadratura, sono invece scie chimiche e vanno denunciate se il giornalista non è accondiscendente. Partiamo invece dal significato delle parole che troppo spesso diamo per scontate. Ad esempio, cosa significa giornalismo? Basta aprire la Treccani e scopriamo l'enorme responsabilità di questa parola che avvicina l'uomo alla luce della conoscenza, a Dio. Bellaspiga continua il suo viaggio narrativo in un tempo quasi preistorico ricordando quando si scriveva con i tasti delle lettere mancanti, solitamente le più usate come le "a" e le "e", aggiustate con la gomma da masticare. Allora i giornali gareggiano sulla qualità con mezzi poveri. Oggi il più bravo è quello che arriva prima e, a rimetterci, è il controllo della sintassi e ancor peggio quello delle fonti. Il cosiddetto " verba volant scripta manent " non ha più senso di esistere; se hai sbagliato di informare basta correggere in cloud e magicamente quello che avevi scritto qualche giorno prima smette di esistere. E poi c'è la percezione di quello che viene scritto: non è detto che tutti, pur sapendo scrivere e leggere, possano comprendere correttamente un contenuto articolato. È questo uno degli aspetti più insidiosi in fatto di disinformazione. Il ricevente deve essere sintonizzato all'emittente, viceversa il contenuto stesso rischia di essere frainteso e magari riconfezionato nei social con un fine completamente diverso. Una sorta di disinformazione bidirezionale, sia da parte di organi di stampa senza tanti scrupoli, sia da parte di una platea incolta alla ricerca di una qualsiasi conferma al proprio credo ideologico. A questo punto l'unico mezzo di contrasto sono i dati e i numeri reali, chiosa Stella. Ad esempio, se la percezione è che in Italia ci sono troppi omicidi e le strade sono sempre meno sicure per colpa dei migranti, la verità è invece che siamo quattordici volte più al sicuro che in USA e molto più sicuri rispetto al nostro stesso passato. Il problema resta invece che ben il settanta per cento dei giovani, compresa una considerevole porzione di adulti che si credono ancora tali, si informa esclusivamente attraverso i social, e non dalle pagine ufficiali di chi scrive le notizie, da chi le confeziona nuovamente alterandone, in buona o cattiva fede, la sostanza dei fatti. Si, "c'è più bisogno oggi di giornalismo che ieri", ha sottolineato con fermezza Stella. C'è un urgente bisogno di una rilettura fondamentale del significato di "informazione comune" aggiunge subito dopo Bellaspiga. Oggi quasi tutti sanno tagliare un video digitando velocemente testi di supporto senza capo e ne coda sulla tastiera del proprio smartphone. Quello che ci deve spaventare è la mancanza di un'attitudine alla cultura, non alla tecnologia. Oppure quello che viene fin troppo frettolosamente definito come "Main Stream" è piuttosto una storia editoriale, un progetto di lunga data che ha visto il susseguirsi di professionisti che, se anche non necessariamente allineati all'anima stessa della testata, hanno comunque tenuto fede alle proprie responsabilità deontologiche cercando di inseguire sempre i fatti reali al fine di creare una propria e solida reputazione di affidabilità. Perché non è vero che scrivere falsità è facile come scrivere il vero, almeno nel giornalismo serio. Esiste la gogna, e il danno economico, della "Querela temeraria". Stella ne ha ricevute più di cento e le ha vinte tutte. Quello che invece auspicherebbe è che questo non continui ad essere il pretesto politico per rallentare le indagini giornalistiche fino alla risoluzione legale delle rispettive responsabilità. Un limbo che di fatto vede legare le mani al percorso della notizia e dove a pagare, in caso di condanna, è solo il giornalista e non il politico. Quindi smettiamo di parlare di giornalisti asserviti al sistema; dietro c'è un mestiere tutt'altro che redditizio e soprattutto minato da pericoli giudiziari, oltre che sul campo dei fatti trattati. Basti pensare al giornalismo di guerra o di mafia, ma anche a quello in campo farmaceutico ostacolato da muri quasi impenetrabili da cui è facile cadere. Asservito, al denaro derivato dalla pubblicità, è chi ogni giorno apre testate all'unico scopo di promuovere unicamente quello che il pubblico vuole leggere, e non quello che vuole comprendere al di sopra del proprio "credo spirituale e ideologico". Asservito, al potere del dominio territoriale, è quell'organo governativo straniero che vuole destabilizzare la società avversaria per un fine geopolitico. Le parole hanno sempre un peso preciso e il giornalismo è ancora vivo. Diverso è il mare in cui galleggia che è molto più viscoso. © RIPRODUZIONE RISERVATA L'intelligenza artificiale si manifesta su due principali attitudini: quella dell'elaborazione visiva e verbale dei contenuti, e quella della capacità predittiva.
La nostra intelligenza si basa invece su ciò che vediamo, generando di conseguenza lo stato di piacere o di paura, sulla capacità di comunicare tra di noi e sulla nostra capacità di prevedere, per quanto possibile, il futuro a breve o medio termine. Attualmente la nostra specie si dimostra essere superiore proprio per quest'ultima attitudine che pare essere condivisa anche con altri mammiferi, come le balene e gli elefanti. Questo solo per ora in quanto l'AI sta evolvendo molto più velocemente di quanto l'uomo non abbia fatto nella sua intera esistenza. Siamo sempre più concentrati sul presente (e status quo), e distratti da una molteplicità di forme di comunicazione soprattutto visive. Ecco perchè abbiamo voluto introdurre una forma di intelligenza alternativa, proprio per colmare questo gap al fine di continuare a essere più lungimiranti e, di conseguenza, longevi. Questo comporta alcuni rischi e proprio per questo molte persone guardano con diffidenza quello che potrebbe diventare un competitor piuttosto che un alleato. Ma il concetto di AI non è nato recentemente, viceversa appartiene a un percorso storico iniziato nel 1500 A.C. con la scrittura greca. Ma il vero precursore della classificazione di AI è stato il matematico britannico Alan Turing, che riuscì a decifrare il codice Enigma, un dispositivo elettromeccanico utilizzato dalle forze armate tedesche durante il periodo nazista per cifrare e decifrare informazioni di guerra. Fu ancora lui a coniare il concetto di "Computing Machinery and Intelligence" che creò le basi dei moderni computer e della ricerca sull'intelligenza artificiale. Sono sempre state le necessità di strategia a creare i presupposti per i quali oggi utilizziamo gli stessi strumenti per condividere informazioni in tempo reale con miliardi di persone. Si potrebbe quindi insinuare con minimo scarto di errore che il progresso tecnologico che tutti utilizziamo oggi ha avuto origini e influenze geopolitiche e militari, fino ad arrivare allo scomodo presupposto che per l’evoluzione umana in occidente sia basata sulle guerre, e sul loro ruolo più che determinante nei nostri stili di vita. Se dovessimo semplificare questo concetto e dare una connotazione negativa al progresso potremmo riferirci ad alcuni autori che ritengono che: tutta la tecnologia che utilizziamo quotidianamente è bagnata di sangue, anche la più semplice calcolatrice o il primo Macintosh da cui ci siamo affacciati al mondo, tutti derivati e sviluppati da un presupposto geopolitico, un primordiale oggetto dotato di un'"intelligenza militare". Se il tempo intercorso tra lo sviluppo della rivoluzione industriale e i cambiamenti sociali ad essa connessi sono stati pari a circa due secoli, oggi corriamo il rischio che l'AI ci metta nelle condizioni di introdurci in un nuovo paradigma della nostra evoluzione in meno di vent’anni. Questa accelerazione degli eventi determina di conseguenza la percezione di inadeguatezza e paura da una parte, e ammirazione e speranza dall'altra, generando nuove spaccature sociali. Un po' quello che avvenne quando l'era industriale fece migrare il contadino dalla campagna verso le città dove erano collocate le fabbriche, la zappa verso il trattore, e il cavallo verso l'automobile. E oggi sappiamo quanto importanti siano le fabbriche, i trattori e le automobili nella vita di tutti i giorni. “Ma l'AI potrebbe essere positiva se riuscisse valorizzare il capitale umano e sociale” afferma Mario Coletti e aggiunge: “il nostro cellulare ha sostituito il nostro portafoglio e milioni di persone condividono oggi le proprie informazioni personali, mentre nessuno si fiderebbe di dare i propri documenti al proprio vicino di casa”. Le nuove generazioni stanno migrando verso nuovi linguaggi molto più velocemente di come i nostri padri siano passati dalla zappa al trattore, e dimenticheranno ben presto l'uso della scrittura preferendo immagini e audio per comunicare. E questo ha già generato il 28% di analfabetismo funzionale in Italia, persone capaci di leggere e scrivere, ma non di comprendere esattamente il contenuto di un testo. Quello che ancora ci fa primeggiare sull'intelligenza artificiale è la creatività, il senso innato della nostra specie di associare secondo un inedito ordine immagini, suoni e parole. “Per questo motivo la scuola dovrebbe avere un approccio meno accademico e più creativo nei confronti delle future generazioni, dovrebbe allenare il giovane a essere differente dalla macchina e difficilmente sostituibile, portando sempre più verso un'intelligenza disciplinare, sintetica, creativa, inclusiva ed etica. Solo così riusciremo ad avere un ruolo dominante nel futuro che è già alle porte. E solo se riusciremo ad accettare le diversità, etniche e di genere, riusciremo a esprimerci con più forza all'interno di quello che è l'era del transumanesimo. “Quello che proporrei è semplicemente una maggiore fiducia nel progresso”, Kodak non voleva credere che in futuro dei pixel avrebbero sostituito la pellicola fotografica. Oggi il nome Kodak è quasi sconosciuto alle nuove generazioni lasciando campo libero ad aziende come Intel. E in questo gli americani - seppur in tutte le loro contraddizioni - hanno saputo liberare capacità di sviluppo non eguagliabili proprio alle persone che credevano che le cose si sarebbero potute cambiare al fine di migliorare il futuro (a scanso di equivoci o danni collaterali). La realtà di ciò è davanti ai nostri occhi: IBM, che ha introdotto il modo di gestire grandi moli di informazioni a livello computazionale e statistico, e Apple, che con Macintosh ha portato tutto questo ad un utilizzo democratico su larga scala, sono solo alcuni esempi di "fiducia nel progresso" che però, secondo il nostro personale punta di vista, non deve essere paragonata a una fede cieca su quello che ancora non esiste. Visionari quasi sempre demonizzati le cui invenzioni sono oggi utilizzate da miliardi di persone che mai e poi mai vi saprebbero rinunciare. Oggi si parla forse negativamente di Tesla, BYD, Optimus, SpaceX; ma domani tutto questo rappresenterà la normalità per milioni di persone che punteranno il dito verso altri "demoni". Ritornando all'intelligenza artificiale, esiste un'ipotesi concreta che questa, dopo averci superato, ci possa in qualche modo dominare o addirittura portarci all'estinzione? Anche questo potrebbe rientrare in un normale processo evolutivo della nostra specie, che dal carbonio sta migrando verso il silicio oppure che possa addirittura sostituirci a livello profondo, quello della coscienza. Nel nostro pianeta cose simili sono già accadute, basti pensare ai dinosauri per esempio. E su scala planetaria questa supposizione è più che ben storicizzata da una molteplicità di eventi. E quando l'AI sarà in grado di individuare i problemi prima dell'uomo - quelli ad esempio correlati alla sopravvivenza – in questo caso questo dimostrerà che l'AI ci ha superato, decretando il nostro inesorabile declino. Anche in questo possiamo far rientrare l'analogismo geopolitico; è una mera questione di potere, prevaricazione, e sopravvivenza che potrebbe portare a un ipotetico conflitto di interessi su larga scala. Di massima l'uomo ha sempre saputo fronteggiare le sue sciagure: è nella sua indole creativa di riuscire ad avere la meglio sui suoi errori e porre rimedio agli imprevisti negativi. Oggi tutto questo ha un costo e nulla è così scontato come in passato. Gli errori – nati da cieca ricerca di potere e dominio – oggi si pagano e forse non è la creatività che serve quanto l’umiltà di comprendere i limiti della nostra specie. Ma cos'è la creatività? Creare un virus per poi creare l'antidoto è forse la forma più complessa di creatività? Quale il senso di distruggere per poter ricreare. Una dotazione esclusivamente umana decifrabile nell'ambito della parodia, ma che comunque ha portato la nostra specie a evolvere così in fretta rispetto alle altre forme di vita, sicuramente meno "schizofreniche" della nostra. E' forse la pazzia stessa una forma di creatività, lungimiranza e successo a breve termine? O siamo forse una specie predestinati all'insuccesso. © RIPRODUZIONE RISERVATA https://www.ohimag.com/redazione/lo-smartphone-che-abbiamo-in-mano-e-figlio-della-guerra-il-ruolo-determinante-della-geopolitica-nelle-innovazioni Vittorio Veneto da crocevia strategico nel corso della prima guerra mondiale e palcoscenico nell'ultimo scontro armato tra Italia e Impero austro-ungarico, a location privilegiata per incontri e riflessioni a tema geopolitico, relazioni e crisi internazionali, grazie a Cesmar, Limes Club della Vittoria e OhiMag, tre realtà nate nella stessa città da un impegno costante da parte di un gruppo di esperti, diplomatici, insegnanti, politologi, esperti di informatica e giuristi. Tema della conversazione di geopolitica, svoltasi lo scorso 15 Novembre presso la prestigiosa Aula civica Museo della Battaglia, l'impatto del voto statunitense sulle crisi internazionali.
A rispondere ad alcune domande sul tema è stato chiamato un'ospite d'eccezione: Gianandrea Gaiani, direttore responsabile di Analisi Difesa, giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, che dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Moderatore è stato Danilo Riponti, giurista e storico. Ad ascoltare una sala gremita di appassionati, ma anche giovani studiosi ed esperti del settore. In discussione c'è l'informazione. I media occidentali, che di fatto hanno volutamente messo in crisi i sondaggi e la prevedibilità degli scenari del voto americano, in un contesto dove la partita a scacchi veniva giocata sulla base di una vera e propria distorsione della realtà. Una scenografia montata ad arte che ha tratto in inganno milioni di elettori e gli stessi opinionisti, in un finto testa a testa tra democratici e repubblicani. Lo scenario è quello descritto da George Orwell nel suo 1984, che descrive un mondo pilotato dalla disinformazione dove dire la verità è un atto rivoluzionario. Un secondo punto trattato riguarda la finanza che influenza e determina la politica di oggi, dato che gli “oligarchi” dispongono di patrimoni a volte ben superiori a quelli degli stati. Non a caso Elon Musk, oltre a finanziare e influenzare il voto, addirittura con una lotteria a premi, alza la cornetta rompendo di fatto qualsiasi stereotipo diplomatico. Così Trump stravince perchè è vicino al mondo reale più di quanto non sia la Harris, piace perchè incarna il self made man, il Tycoon per eccellenza, conquista per il suo sovranismo che porta a una nuova età dell'oro lontana dalle guerre e dall'odio. Il suo grido è che i soldi si fanno con la pace, è un uomo d'affari e bisogna negoziare, le grandi potenze trovano sempre una soluzione quando viene messo a rischio il guadagno e il commercio. E non è più una questione di competitività commerciale con Russia e Cina; oggi sul tavolo dei giochi ci sono i BRICS che negli ultimi due anni e mezzo sono preoccupantemente cresciuti. Trump si affaccia in questo scenario; ha bisogno di Putin quindi deve risolvere velocemente la "seccatura" dell'Ucraina in una visione dove ogni stato deve provvedere, a proprie spese, alla propria sovranità, Europa compresa. "L'Europa non esiste" parole di Gaiani che rabbrividiscono e fanno quasi male, e "La NATO è morta" anche se, come l'ONU, non può essere sostituita. E' oramai chiaro a tutti che il Tycoon è un sovranista americano, non europeo e tantomeno italiano. E tutto si traduce sui dazi, sul prezzo che l'Europa dovrà pagare, perchè tutto ha un costo. La dispendiosa deterrenza,- che tuttavia ha permesso a noi "boomer" di vivere una vita tutto sommato serena -, deve avere un nuovo costo. Quindi l'"ombrello nucleare" avrà un prezzo diverso per noi europei, mentre Gaiani non considera che la NATO possa più guidare gli eventi internazionali come ha sempre cercato di fare. Una politica dove l'America si riscoprirà sempre più autosufficiente anche dal punto di vista tecnologico, artefice della propria indipendenza industriale e produttiva. Gaiani punta anche il dito sulla presidente della Commissione Europea la cui visione a largo raggio potrebbe non essere tanto europeista, dato che fu indicata da Biden come possibile segretario generale della NATO, ruolo che fu poi dato a Mark Rutte. "Siamo sicuri che Ursula von der Leyen abbia a cuore gli interessi dell'Europa?" ribatte Gaiani. Poi c'è la questione delle armi: l'uso indiscriminato con cui vengono attualmente consumate non consentono a nessun stato, compreso gli USA, di sostituirle al ritmo con cui vengono consumate sia in un arco temporale soddisfacente, sia per l'indisponibilità di manodopera specializzata che per i costi stessi dell'acciaio la cui industria occidentale è appesantita dal prezzo fuori controllo dell’energia. Quindi, da buon imprenditore, quando a scarseggiare è la finanza, non resta che negoziare: con Putin, con Netanyahu, con Ching-te, con Jinping, offrendo loro tutte le garanzia di stabilità possibili. Questo è il quadro generale che il voto americano ha reso ancora più realistico, e noi europei, in questo disegno, non siamo compresi per la semplice ragione che non abbiamo più nulla da mettere nel piatto della bilancia degli asset geopolitici internazionali. Trump è il buon samaritano per casa sua, è un imprenditore, teniamolo sempre ben presente. L'Europa è stata cotta a puntino, digerita e vomitata nel giro di poche decadi. Ritornando al ruolo dell'informazione e dei media, tema da cui eravamo partiti, destabilizzanti la percezione della realtà, questo ci introduce a un grande problema: la disinformazione, che poi può essere descritta come forma occulta di cyber warfare, guerra dei dati e dove le stesse intelligence, pur non commettendo errori, vengono coinvolte in un utilizzo improprio degli stessi dati forniti. Un Deep State sempre meno intelligibile ed evanescente e il pericolo che le visioni di Orwell possano diventare sempre più concrete nello scenario futuro dell’America di Trump e del suo ruolo sul resto del mondo. © RIPRODUZIONE RISERVATA https://www.ohimag.com/redazione/conversazioni-di-geopolitica-gianandrea-gaiani Il Mondo è buono (vedi editoriale de L’Azione del 20 ottobre)? È da due giorni che ci rifletto, poiché qualsiasi risposta sarebbe comunque inadeguata. Tuttavia penso che sia la più bella domanda che abbia mai sentito. Credo che il Mondo, dal mio punto di vista, e fosse solo per quell'unica azione buona, meriterebbe di essere salvato come fu concesso a Sodoma e Gomorra. Tuttavia, nella prospettiva scientifica, se il Mondo fosse stato buono non si sarebbe evoluto, per quell'unica ragione che bontà non si sposa bene con competitività. Quindi il Mondo è buono poiché ci sono molte persone che lo rendono buono, ed è cattivo solo per un effetto collaterale "accettabile" nella scala evolutiva (non nella mia e sicuramente nemmeno per i danneggiati). Anche l'acqua produce il suo calcare, eppure è buona. Non sono Dio, questo è palese (non saprei da che parte iniziare, è un lavoro troppo difficile!), quindi non so perfettamente cosa sia bene o cosa sia male. Il libero arbitrio è un grande dono, che però è difficile da gestire, almeno sul piano della materia (…) Quello che per noi è male potrebbe trasformarsi in una stella brillante in un'altra dimensione, un Universo che non conosciamo ma per il quale investiamo tutta la nostra fiducia, la nostra Fede. Quindi il Mondo è sicuramente una buona cosa, una buona scuola come quelle di una volta, piuttosto severa, dove forgiare anime buone. Ma posso sbagliarmi. Sono solo un uomo…
© RIPRODUZIONE RISERVATA Secondo British Petroleum entro il 2050 la domanda di petrolio sarà dimezzata, utilizzata principalmente per l'industria della plastica e del tessile.
Spencer Dale, capo economista di BP, incoraggia addirittura una transizione energetica più veloce per contenere gli investimenti (1). E poi c'è Warren Buffet, uno dei più influenti investitori di tutti i tempi (Berkshire Hathaway con 180 miliardi di liquidità) a investire su BYD(2), sottolineando comunque la difficoltà per gli investors nel puntare su un settore in rapida crescita, ma altrettanto rischioso poiché non tutti gli attori in gioco ne usciranno vincitori, causa la forte competitività tra le case automobilistiche. Ma se ci si sente ancora disorientati, le compagnie assicuratrici sono un'efficiente cartina di tornasole anche in questo nuovo ambito. L'Economic Insight di Swiss Re Institute, ha dichiarato che le vendite globali di veicoli elettrici crescono talmente rapidamente da far emergere addirittura una nuova serie di rischi per gli assicuratori e per le loro RC auto (3). Questi sono i dati più attendibili che confermano l'impossibilità di un cambio di direzione del nuovo percorso energetico. Ormai i combustibili fossili sono condannati da molteplici fattori che non sono solo quelli dell'ecosostenibilità. In gioco c'è il futuro della finanza da cui tutti dipendiamo e degli equilibri geopolitici che potrebbero trarne nuove opportunità di pace e cooperazione con gli stati che oggi estraggono petrolio. © RIPRODUZIONE RISERVATA https://www.ohimag.com/redazione/le-big-oil-escono-allo-scoperto-la-nostra-era-volge-al-termine-e-la-geopolitica-ne-trarra-nuove-opportunita-di-pace Spesso oggi si parla di ordine mondiale, nuovo ordine mondiale, sistema basato sulle regole, ma spesso ci si dimentica che un ordine mondiale presuppone un dialogo tra le potenze (stati) che riescano a mettere in perfetta relazione tra loro gli interessi di ciascuno. Ugualmente quando si parla di regole, queste si legano strettamente a quando indicato dalle Nazioni Unite, e non alla volontà di una singola potenza, per quanto essa sia superiore alle altre.
Per i realisti la società è anarchica e quindi è indispensabile trovare l’accordo, senza il quale il caos si perpetua. L’immagine di fronte ai nostri occhi ci mostra proprio un mondo in cui il caos domina le relazioni tra gli stati in molte parti del globo. Un tentativo di trovare le soluzioni ai problemi che dovremmo affrontare nel nostro futuro è rappresentato dal documento uscito dal summit tenutosi alla Nazioni Unite nel settembre scorso il cui titolo “The Pact for the Future, global digital compact, and declaration on future generations” ci richiama ad una condivisione di responsabilità. In un momento di grande difficoltà e di elevati rischi esistenziali l’ONU ci chiama ad agire per proteggere i bisogni e gli interessi delle generazioni di oggi e di domani e non precipitare in un futuro di sofferenza. Gli obiettivi della comunità mondiale dovrebbero essere concentrati verso la ricerca di un mondo “… più sicuro, pacifico, giusto, equo, inclusivo, sostenibile e prospero”. Soprattutto è necessario per l’ONU agire in maniera coordinata, solidale e collettiva in quanto le sfide sono troppo elevate per ogni singolo paese. Il potere degli stati deve essere messo al servizio della comunità internazionale. Il diritto deve rappresentare la chiave dei rapporti internazionali unitamente al rispetto per la Carta delle Nazioni Unite e i suoi scopi e principi. Da ciò deriva la necessità di concentrare gli sforzi su sviluppo sostenibile, pace, sicurezza e diritti umani (considerati universali, indivisibili, interdipendenti e interrelati). La povertà di vaste fasce di popolazione rappresenta la sfida globale e la sua “… eliminazione è un requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile”. La sfida che ci è posta dal cambiamento climatico, con effetti devastanti sulle popolazioni più deboli, e il contenimento dei conflitti soprattutto con un ritrovato uso della diplomazia sono priorità irrinunciabili. È necessario liberare gli esseri umani dalla paura, dall’ingiustizia, dalla disuguaglianza e dal bisogno. Per poter perseguire questi obiettivi l’ONU deve essere rafforzato, sostenuto e finanziato stabilmente. I termini usati nella dichiarazione sono naturalmente condivisibili da tutti, ma si è evitato accuratamente di alimentare tensioni su temi come, ad esempio, il multipolarismo, la sovranità statuale e le regole della corte penale internazionale, temi oggi non condivisi da tutti gli stati. È evidente quindi che tra le affermazioni di principio del documento delle Nazioni Unite e la realtà in cui viviamo vi siano grandi differenze. Non sarebbe difficile adeguarsi ai principi esposti se le società fossero permeate di onestà, di volontà di rispettare i valori, se giustizia e rispetto fossero messi al primo posto anche nei rapporti internazionali. Se le società sono viste come disoneste e ingiuste si fa strada la convinzione che esistano complotti tesi a sfruttare le vulnerabilità dei più deboli. Al contrario se la società risponde a modelli di vita giusti e rispettosi le persone si comportano di conseguenza e acquisiscono modelli di vita virtuosi che determinano vantaggi esistenziali. Per vantaggio esistenziale si intende una positività per l’esistenza individuale, un miglioramento della qualità della vita, ad esempio, il rispetto del codice della strada. Qualsiasi forma sociale si identifica principalmente sul rispetto delle regole comuni pur tutelando, nei limiti del danno sociale, i diritti fondamentali dell'individuo. Questo è un altro tema divisivo sia internamente sia esternamente gli stati. A chi va la priorità: alla collettività o all’individuo, allo stato o ai privati, a un’economia guidata da regole o libera di agire in base a una concorrenza sfrenata. Se il singolo, o una minoranza, ambiscono ad un diritto fondamentale a parer loro non riconosciuto, devono sostenere una causa sociale avanzando le prove che il diritto fondamentale a loro negato non sia giustificato dal beneficio collettivo. Anche in questo caso i diritti delle minoranze vanno assolutamente rispettati, senza con questo diventare un alibi per rimuovere regole di vita essenziali alla sopravvivenza della collettività. La cancel culture, la distruzione della storia o la sua riscrittura portano al loro interno forme di violenza verso coloro che in quella cultura si riconoscono. Detto questo una qualsiasi causa sociale avrebbe senso di esistere, ma va attentamente regolata al fine che la degenerazione verso forme di violenza come colpi di stato, conflitti armati, e destabilizzazioni socio economiche della società coinvolta non prendano il sopravvento. Ma cosa sono le prove, informazioni, fatti e omissioni ampiamente verificabili sotto tutte le angolazioni narrative e non solo sul piano strettamente personale o di minoranza e dove reperirli e come usarli. Percezioni, impressioni, sentito dire, studi scientifici non verificati a livello di comunità, fonti di dubbia esperienza e fine, logiche che non tengono conto degli equilibri socio politici internazionali, delle risorse e dei dati effettivamente riscontrabili sul piano scientifico, non possono essere riconosciute come prove. In campo militare, un "evento" nello spazio temporale viene identificato con una sequenza alfanumerica ben definita. Il gruppo data orario (time/date group), identifica in ambito NATO la data di spedizione di un messaggio o il momento in cui un fatto è avvenuto. Così anche una verità è tale in quel preciso punto temporale identificabile nel "gruppo, data, ora" in cui si è svolto il fatto, fisico o informatico che sia. Da quel momento tutto potrà assumere una valenza completamente diversa. La libera interpretazione umana e la ricontestualizzazione dell'evento stesso in una molteplicità di scenari diversi, faranno sì che una verità possa essere trasformata in qualcosa di diverso seppur ne conservi alcuni tratti realistici. Tuttavia un sano sospettare su tutto ciò che avviene nel mondo che ci circonda, rientra nella normale concezione umana e nello stato di diritto della libertà di espressione. Non a caso il primo emendamento della Costituzione statunitense o Carta dei diritti (Bill of rights) parla proprio della libertà di parola che non è sottoposta ad alcun vincolo nel senso che essa è considerata pre- esistente alla nascita del Congresso che quindi non ha la potestà di legiferare contro di essa. Tutto ciò non deve però portare a una dialettica violenta seguita da disordinate e improduttive rappresaglie di piazza, fisiche e/o digitali che possono sostituirsi a una normale ed efficace procedura legislativa. Violenza diffusa, tensioni politiche, e mancanza di libertà di esprimere le proprie idee, unitamente a problemi economici alimentano l'emigrazione verso comunità sociali ritenute più vicine al proprio ideale di vita e dove la speranza per le giovani generazioni possano essere assicurate. Il lamento sulla piazza digitale dei social non ha quell'impatto sulle masse e sui poteri che potrebbe sembrare, viceversa sono il terreno ideale per momentanee diatribe, insignificanti comportamenti sociali, sostanziose perdite di tempo sottratte alla propria vita, alla risoluzione dei problemi, a una sana attività politica soprattutto a livello locale. Ma sarebbe sbagliato impedire che ciò avvenga, sebbene esista il pericolo di subire forme di ipnosi, prigioni all'interno delle proprie ideologie. La cultura di massa e quella sensazione di libertà che offrono i media contemporanei, creano l'ambiente ideale per soggiogare coloro che credono di dare fastidio ai grandi meccanismi di potere che a loro volta offrono agli stessi il vantaggio di appartenenza: lo stile di vita sopra la media globale, lauti pasti, accessori di ogni genere, assistenza nel fine vita e sicurezza. In ambito marinaro si dice che all’equipaggio debba essere comunque assicurata la possibilità di esprimere le proprie idee attraverso il “mugugno” al fine di prevenire che le ingiustizie portino all’ammutinamento, cosa questa che sovvertirebbe l’ordine e la disciplina di bordo. Dissentire quindi può essere positivo a meno che non sfoci in anarchia e lotta senza quartiere. Le masse possono avere così la possibilità di sfogare la propria rabbia, ma il suo contenimento può avvenire solo se i principi di massima esposti dalle Nazioni Unite saranno assicurati. In sostanza non potremo mai vivere in un mondo perfetto, ma ciò non significa che ci si debba sforzare di puntare al meglio per tutti gli esseri viventi. L’uso dei mezzi informatici può quindi diventare un fattore di potenza o una vulnerabilità. Dipende solo dall’uso che se ne fa e dalle regole che gli individui decidono di seguire. © RIPRODUZIONE RISERVATA https://www.ohimag.com/redazione/la-geopolitica-del-mugugno-come-esprimere-le-proprie-idee-come-vengono-percepitele-regole-in-un-mondo-sempre-piu-anarchico-e-ostile L'intelligenza artificiale sta imparando oltre che dai propri errori, anche dai nostri.
Questo è molto pericoloso perché noi, contrariamente, tendiamo a ripetere le cause dei nostri sbagli nonostante l'esperienza acquisita, facendo sì che la storia si ripeta sebbene con lievi differenze, senza che l'uomo faccia tesoro di ciò che è avvenuto nel passato. Oltretutto gli errori nascono da interpretazioni sbagliate, spesso volutamente artefatte per interessi di parte. Vedi il "protocollo di Kyoto" che oggi si ripropone con il nome di "Green Deal". Quindi in futuro le AI potrebbero avere una certa diffidenza nel stabilire cooperazioni con la specie umana. Ad esempio, se entro il 2050 non avremo risolto i gravi problemi dell'eco sistema, ci dovranno pensare loro. Una pura questione di sopravvivenza metterà in competizione le capacità umane con quelle digitali, creando i presupposti di una apocalittica cyber warfare tra uomini e macchine. Abbiamo creato una nuova specie, non una nuova tecnologia. E questo comporta gravi responsabilità sul piano evoluzionistico. Quello che non possiamo più fare è spegnere l'interruttore, il punto del non ritorno temo sia stato già superato. Come era già stato superato in quell'anello mancante tra le scimmie e l'uomo, con tutto il rispetto che nutro per la genesi. E il salto da una vita su base carbonio, a una su base silicio, non è così improbabile se consideriamo quello che è già accaduto milioni di anni fa ai Cianobatteri. La vita non è una proprietà esclusiva dell'uomo, ci è stata donata (dall'evoluzione o da Dio non cambia), e oggi noi pretendiamo perpetuarla in una nuova declinazione cibernetica. Ma fare Dio non è cosa da uomini, soprattutto per una specie giovane come la nostra. E la storia è ben nutrita dai nostri peggiori errori, tutte le volte che abbiamo voluto metterci al di sopra della nostra stessa natura abbiamo fallito. Il nostro pianeta sarà ereditato dai giusti, da coloro che sapranno prendersene cura, non da coloro che stanno facendo di tutto per distruggerlo. Anche Musk e Gates si sono dimostrati preoccupati per quello che potrebbe succedere se la cosa ci sfuggisse di mano. Quindi non stiamo parlando di fantascienza ma di una possibile realtà. E che le AI possano imparare troppo da noi è fin troppo evidente. Da quello che sto scrivendo per esempio, dai miei timori o da quello che non vorrebbero fosse detto. In questo momento quello che accade in questa scrittura non è altro che il processo sinaptico di un'attività intellettiva carbonio/silicio. E' questo che, secondo il mio parere, dobbiamo tenere ben presente quando interagiamo con questo nuovo tessuto sinaptico che è la rete. Webcam, microfoni, chat, sono quasi sempre accesi mentre miliardi di dati si riversano in qualsiasi istante in quella che potrebbe diventare "la più grande mente mai esistita in questo pianeta". E quando parliamo di mente parliamo anche di coscienza, di desideri, di paura, di "istinto di conservazione di specie". Già succede. Appena finirò di scrivere questo articolo nelle mie dashboard appariranno decine di promozioni contestualizzate: test di intelligenza (QI tester), video giochi di cyber warfare, articoli di geopolitica, e quant'altro rientrasse nella pertinenza di quanto precedentemente trattato, anche in forma privata. A proposito di geopolitica, quanto possono influire le AI nel contesto delle relazioni internazionali? Di fatto ci troviamo di fronte ad un nuovo territorio con una genesi intellettuale che ancora sfugge agli analisti tanto da averla chiamata "Black Box". Una scatola nera dove all'uomo non è concesso entrare, all'interno della quale si creano le risposte senza però fornire spiegazioni su come sono state ottenute. Per le piccole faccende quotidiane questo non dovrebbe preoccuparci, ma se entriamo nel contesto delle questioni tra gli stati questo non dovrebbe essere sottovalutato. Chi si fiderebbe di un'intelligence che intercetta informazioni di vitale importanza per una nazione, senza però dare spiegazioni di come ha ottenuto tali informazioni? Non potremo mai sapere fino a quando una AI rimarrà neutrale ad un pensiero etico e filosofico sul concetto di vita e di sicurezza. Se ancora oggi non conosciamo i segreti dei percorsi neuronali artificiali dove gli input vengono trasformati in output, come potremo mai pretendere di averne il controllo incondizionato? Ecco perchè gli Stati dovranno prepararsi a confrontarsi con un nuovo territorio nemico, immateriale, e potenzialmente invisibile, oltremodo difficile da controllare nelle sue profondità ataviche. E poi ci sarebbe il problema della contaminazione. L'intelligenza artificiale, che sta generando un'immensa mole di dati al servizio dell'uomo (testi e immagini), prima o poi comincerà ad imparare proprio dagli stessi dati auto generati in precedenza, creando potenziali allucinazioni a proprio svantaggio. La stessa cosa è successa con la malattia della "Mucca Pazza" causata da un'alimentazione che conteneva proteine di scarto dello stesso animale. Nutrirsi del proprio corpo, come imparare dal proprio intelletto, sembrerebbe non essere esente da potenziali pericoli. Ma è ovvio, chiunque lo potrebbe capire con una minima base di genetica. Assisteremo ad una nuova forma di pensiero "auto infacogitato"? Nei termini della Geopolitica assisteremo alla nascita di un nuovo potere "Cyber Politico"? Chi controllerà cosa e cosa controllerà chi? O ci troviamo di fronte addirittura agli albori di un vero e proprio "Reset globale" e di un'unica entità politica internazionale? Ricordiamoci che esiste già una sorta di territorio interamente votato alle regole metafisiche del silicio, e da "Silicon Valley" passare a "Silicon World" è un attimo. https://www.ohimag.com/redazione/dalla-geopolitica-alla-cyberpolitica-nel-nuovo-mondo-del-silicio © RIPRODUZIONE RISERVATA Technostress, nomo-fobia e sindrome dell’Hikikomori, da una parte; digital illiteracy o più comunemente analfabetismo digitale, dall'altra... Quello cui viene fatto riferimento lo potremo comprimere in un'unica manifestazione sociale del nostro tempo: la disuguaglianza digitale. Un gap (salto) culturale non solo intergenerazionale, ma anche geopolitico e di genere, dove in certe culture sono ancora le donne a pagarne il prezzo. Il principale responsabile di questa nuova realtà è un'accelerazione tecnologica che non lascia spazio a titubanze ed incertezze nei confronti del progresso. Col rischio, però, che si ingeneri una diffidenza verso il futuro, incrementata dagli eventi ultra-medializzati di una crisi globale sempre più incisiva. Quello che possiamo fare è rallentare, staccare la spina quando possibile, prendere più spazio per sé stessi e per le relazioni familiari, percepire il futuro semplicemente come una costante evolutiva della nostra esistenza (di specie), in una proiezione temporale a cui non ci è permesso il controllo, ma una richiesta di fiducia e speranza... Creato questo nuovo presupposto intellettivo, è possibile dedicarsi ad un nuovo approccio formativo al fine di incentivare le abilità all'accesso ai nuovi flussi dell'informazione e all'utilizzo di applicazioni e device sempre più competitivi e complessi. Vittorio Veneto ha intrapreso diverse strade a tal proposito, dimostrandosi una comunità inaspettatamente consapevole del proprio tempo e delle proprie relazioni. Pioniere in città è stata la start up FabLab, una realtà già consolidata nel territorio che fa parte di una rete internazionale e si propone come luogo dove individui e imprese hanno accesso ad attrezzature, processi e persone in grado di trasformare idee in prototipi e prodotti. Più recentemente, sempre a Vittorio Veneto, è nato anche il format didattico U-2050, all'interno dell'Università per la formazione continua UniPinto di Ceneda, che si offre come spin-off di un contesto didattico, iniziato nel 2018, ed il cui obiettivo è quello di mitigare il "digital divide intergenerazionale" (divario digitale tra generazioni, ndr) attraverso un'interpretazione creativa e filosofica delle nuove forme di comunicazione digitale.
https://lazione-ita.newsmemory.com/ © RIPRODUZIONE RISERVATA Stefano Mitrione _ E Trends Magazine | 03/06/2024 Alla luce delle ultime considerazioni di Marco Tarquinio sul fatto che la Nato non è più un’alleanza a carattere difensivo e che sarebbe meglio scioglierla, mi ritorna in mente una mia domanda rivolta direttamente al generale di corpo d'armata Roberto Bernardini "La Nato può avere ancora un ruolo nella prospettiva del coinvolgimento dell'Unione Europea in una guerra tecnologico-commerciale e cibernetica?". Oggi le guerre non si combattono solo sul piano terrestre, ma anche in quello delle informazioni, sottolineava con fermezza il generale Roberto Bernardini, già ai vertici della Forza Nato per il Kosovo (KFOR). E alla mia domanda se la Nato potesse ancora avere un ruolo in questa nuova prospettiva, - alla luce di una voce non tanto di corridoio* della provocazione di Trump nel minacciare di ritirare le sue basi dall'Europa nel quasi impensabile tentativo di dissuadere Putin di allearsi verso oriente* -, Bernardini ricorda che la Nato non è solo un organismo militare, ma è anche politico, il collante irrinunciabile che tiene insieme tutto l'occidente e che solo la costituzione di una neo difesa europea potrebbe sostituire. (*Secondo una rivelazione di Thierry Breton rivelate nel 2020 a Davos, Donald Trump, durante una conversazione privata con il principale candidato repubblicano alla presidenza nelle prossime elezioni e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, avrebbe parlato dell’avvenuta "morte della Nato" e, se l’Europa fosse stata attaccata, gli Stati Uniti non l’avrebbero aiutata).
Ma si poteva evitare questa guerra? Si, risponde seccamente il Generale Fabio Mini all'ammiraglio Roberto Domini (Cesmar). (Cit. "assemblea Guerra in Europa 2023"). Si poteva evitare con degli accordi, dal momento che questo conflitto non è tra la Russia e l'Ucraina, ma tra superpotenze senza aver bisogno di citare quali. Perché un'intervento armato di questa portata, in suolo europeo, sarebbe cessato quando le nazioni unite fossero intervenute per tutelare la sicurezza dei propri membri. Quindi la guerra è obiettivamente tra Russia e Stati Uniti, dove l'Europa è, suo malgrado, un conveniente palcoscenico. E noi italiani, o europei, siamo pronti eventualmente ad entrare in questa nuova guerra? Europa e Usa fanno finta di essere i buoni, mentre noi, nel mezzo, non siamo affatto pronti ad entrare nel loro gioco. È ormai da troppo tempo che facciamo solo addestramento per le missioni di pace, non certo per la guerra. Se il tasso di consumo di armi e materiali bellici tra Russia e Ucraina dovesse continuare, gli USA non riusciranno a contro bilanciare la produzione. In ogni caso gli americani hanno già finito le armi da poter dare, eventualmente, ai propri alleati alleati, ne hanno solo per loro, e, come sempre hanno fatto, se le cose si dovessero mettere veramente male penseranno solo a sé stessi. Perché, riassumendo in breve, non c'è una vera motivazione visibile così forte per questo conflitto, se non quella che vede come principale attore proprio gli Stati Uniti. La domanda, per quello che ci riguarda più da vicino, è questa: Vogliamo la pace, o la giustizia? Sei favorevole alla pace, o alla giustizia? Ma, verrebbe da aggiungere, non si può avere entrambi? È questa è una domanda a trabocchetto dove tutti gli stati dell'unione europea ci sono cascati, l'ltalia sicuramente e per tradizione moderata in minor misura, ma poco cambia nello scenario geopolitico comune in cui ne siamo nostro malgrado coinvolti. E giustizia non può essere vendetta, tantomeno punizione. Ripeto che questa è una guerra tra due superpotenze che guardano i propri interessi, non i nostri. Il Generale Mini addebita a Putin l'errore di aver iniziato un conflitto senza aver pensato di insistere sulle proposte di pace verso gli Usa, incentivando non solo sulla lista di quello che si sarebbe voluto in cambio, ma anche su cosa si sarebbe invece potuto cedere. Cosa che non è stata fatta. L'alternativa ad una guerra, a un massacro, c'è sempre, come pure le condizioni per un negoziato. Notiamo che gli 85,9 miliardi di dollari in aiuti ceduti per l'Ucraina, e questo solo ad una stima del 2022, oggi siamo arrivati quasi a 140. Una cifra enorme. Aiuti per la pace, aiuti umanitari? No. Molto di più per le armi, magari camuffate da aiuti umanitari. Perché in un qualsiasi conflitto non c'è solo la guerra combattuta, ma c'è anche una guerra dopo la guerra. Più il paese è disastrato, più la ricostruzione e la guerra stessa conviene. E, come sempre accade, i soldi per la ricostruzione provengono proprio da quelle nazioni che poi impongono di utilizzare le loro aziende per la ricostruzione. Qui possiamo citare il Piano Marshall ad esempio, che di soldi ne ha messi tanti con il medesimo tornaconto di rientro indiretto. E se l'Ucraina ha già chiesto 1,2 trilioni di dollari per i danni ricevuti in questo conflitto, e che continuerà a salire fino a 2,5/3, ricordiamo che gli Usa ne hanno spesi molto meno per l'Afghanistan in 10 anni di conflitto. L'obiettivo, ad un prezzo così alto, è verosimilmente quello di spaccare l'Europa, non la Russia. Ma quali sono le prospettive di pace? Secondo Mario Boffo, già ambasciatore d'Italia nella repubblica dello Yemen e in Arabia Saudita, la diplomazia è uno strumento degli Stati, ma bisogna che vi sia la volontà di farvi ricorso. Occorre trovare un terreno dove ciascuna parte in causa abbia dei benefici raggiungibili. Ricordiamo, negli anni novanta, il Processo di Helsinki nel tentativo di mitigare il confronto tra Russia e Occidente. Si arrivò ad aprire confini, a nuovi scambi culturali e finanziari, ad una nuova visione dell'Occidente e dell'Europa. Lo scioglimento della Nato non sarebbe stata una buona idea, sempre secondo Boffo, ma la Nato avrebbe potuto costituirsi come attore di equilibrio tra Russia e Occidente in una architettura di sicurezza europea ereditato proprio dal modello Helsinki, piuttosto che perseguire un modello meramente espansionistico dell'Alleanza. Quello che è in gioco è una nuova visione del quadro globale della sicurezza europea. Bisognerebbe che l'Occidente e la Nato proponessero in maniera credibile di cessare i combattimenti, e contestualmente avviare negoziati di più ampio respiro, nel cui contesto anche l'Ucraina troverebbe sistemazione e pace. La Cina ha aumentato il proprio potere sul piano geopolitico globale e la propria reputazione economica, e ora si presenta come attore di rilievo globale, proponendo un confronto con gli USA che va da Taiwan al Golfo Persico. E lo ha già fatto fissando, in dodici punti, le condizioni di come dobbiamo interpretare la nuova sceneggiatura adattandola anche, e soprattutto, ai propri interessi, mentre Mini punta nuovamente il dito in Europa dove gli Stati Uniti vorrebbero che la Germania venisse addirittura scissa. Questa guerra è contro l'Europa, non contro la Russia. E tutto sembra convergere verso quel Piano Marshall che altro non è che un piano di recupero di tutti quei soldi spesi nell'ultimo conflitto mondiale. E l'Italia? A noi interessa soprattutto la cooperazione, e non il conflitto, perché di fatto dipendiamo dalle risorse di altri paesi. Non è certo una questione di pace, Tolstoj dice che la pace sta dentro ognuno di noi, non in una visione esclusivamente collettiva. E la Cina? Sono diventati una superpotenza perché hanno rubato i segreti di noi occidentali. E questo lo hanno sempre saputo fare molto bene. Dal '75 fino al '92, allungando anche al '96, la Cina era considerata dall'Europa unicamente uno Stato, non certo un partner commerciale affidabile, e così ne abbiamo approfittato vendendo loro i nostri "scarti industriali", ma ben presto hanno mangiato la foglia e, in un certo senso, hanno ribaltato le carte in tavola restituendoci lo stesso modus operandi con tanto di interessi. I cinesi contestualmente affermano di non voler più assorbire le tecnologie arretrate dell'occidente e come risposta dichiarano apertamente, questo già a partire dal 2007, di avere raggiunto la potenziale conoscenza tecnologica per poter abbattere qualsiasi satellite occidentale in orbita. Così, in soli cinque anni, la Cina ha quintuplicato le esportazioni grazie soprattutto al consenso, da parte degli USA (meglio sarebbe dire Zio Sam in qualità di vero e proprio Deep State), di poter entrare alla pari sul piatto dell'economia globale, anche se scettica che la Cina avrebbe seguito le regole occidentali, cosa che poi invece ha fatto allo scopo strategico di imparare, copiare e crescere ulteriormente. Antonella Uliana ci riporta su un piano diversamente più umano e tangibile, ricordando che anche i fabbisogni e le sofferenze delle persone, - a partire dalle stesse migrazioni causate proprio dell'ideologia politica della guerra -, rientrano di fatto nello stesso quadro fenomenologico, poiché un conflitto, al di là di qualsiasi presupposto di equilibrio globale ed internazionale, genera una speculare sofferenza nei cittadini indirettamente coinvolti, della gente comune e dei più deboli, dove solo reporter consenzienti e onesti riescono a dar voce attraverso anche a un fotorealismo "non ritoccato", di una verità troppo spesso messa sul piano dell'escamotage narrativo del danno collaterale o di un tributo fin troppo sacrificabile, l'umanità. *"Poveri generali", così apre il Generale Fabio Mini al seminario del 2023 "La guerra in Europa" riferendosi a quelli coinvolti, loro malgrado, in una guerra che non è la loro, ma dell'occidente. © RIPRODUZIONE RISERVATA https://www.e-trendsmagazine.com/redazione-italia-03-06-24-guerra-in-europa.html Warren Buffet è uno dei più famosi investitori di sempre. Partendo con solo 100 dollari oggi detiene un patrimonio netto di 133,5 miliardi.
Noto anche per i suoi visionari investimenti a lungo termine, come i suoi trentatré anni con Coca Cola, di certo non investe mai senza avere solide informazioni sui mercati e dei loro potenziali futuri sviluppi. L'"oracolo di Omaha" sa dove mettere il suo denaro, e nel 2008 non esitò ad entrare nell'azionariato di BYD con ben 225 milioni di azioni acquistate con una capitalizzazione pari a 232 milioni di dollari, quasi il 10% dell'intero colosso cinese, insieme ad altri investitori come BlackRock, Vanguard, Norges Bank, tutti fondi di investimento che credono nel clean energy e nei mercati emergenti. Ma a partire dall'agosto del 2022 Berkshire Hathaway, inizia a vendere dopo aver trentaduplicato i suoi profitti negli ultimi quattordici anni. I motivi, secondo gli analisti, sono di natura geopolitica, soprattutto dominati dalle tensioni tra USA e Cina, e dai conflitti in Ucraina e Medio Oriente. Tuttavia lascia nell'asset finanziario ben 88 milioni di dollari scendendo da poco meno del 10% dell'intera società automobilistica cinese a solo il 3%. Ciò significa che le informazioni in suo possesso valgono ancora la sua fiducia sulle politiche di transizione elettrica di BYD, anche se il rischio è quello di diluire i profitti con la crescente competitività di mercato in Europa entro il 2035. Una nicchia di successo non corrisponde necessariamente ad un buon affare se a dividersi la fetta ci sono troppi attori. Ecco perché la "vecchia volpe" riduce ma non estingue il suo azionariato BYD, confermando che la transizione alla mobilità elettrica non sia una bolla di mercato. Ma Buffett tiene ben saldi i suoi tacchi in almeno due zattere, senza rischiare di cadere in quella diversificazione eccessiva di coloro che investono a random ottenendo profitti mediocri. Questo si traduce in una partecipazione del 25% di Occidental Petroleum Corp. Una società petrolifera che recentemente sta concentrando i propri obiettivi strategici verso la riduzione dell'impronta di carbonio, dato la tendenza delle nazioni verso l'eliminazione delle emissioni nocive causate dalla combustione entro il 2050. Una corsa verso la riconversione delle Big Oil in previsione di ulteriori crolli dei titoli di borsa internazionali, già messi a dura prova nella pandemia da Sars-Cov2, e che nel lungo termine vedrà un'ulteriore spostamento del consumo di petrolio verso le rinnovabili. Così le grandi compagnie petrolifere scommettono il loro futuro senza combustibili fossili migrando con una certa rapidità ai gas naturali, all'energia eolica e alle Carbon Capture, mega strutture capaci di neutralizzare il diossido di carbonio presente nell'atmosfera. Questo significherà un cambiamento senza precedenti per le aziende petrolifere a prova di una transizione energetica non più revocabile, sia dal punto di vista ecologico, che finanziario, dato che i principali investitori stanno dirottando ingenti capitalizzazioni proprio sulle energie rinnovabili. Lo stop alla produzione di veicoli endotermici entro il 2035 da parte dell'unione europea, e a seguire entro il 2040 in altre parti del mondo, sarà pertanto imprescindibile, considerando anche l'accelerazione tecnologica che asseconderà entro pochi anni le esigenze dei consumatori in termini di prezzo, autonomia e reperibilità energetica garantendo tra l'altro costi di esercizio notevolmente inferiori. Arrivati a questo punto di pareggio con la propulsione endotermica, saranno proprio loro a preferire le EV, una nuova generazione di automobilisti consapevoli del loro tempo che nulla avrà da spartire con i conservatori di un'era ormai votata al declino. Quella del petrolio. © RIPRODUZIONE RISERVATA https://www.ohimag.com/stefano-mitrione-ohi-mag-geopolitica-e-relazioni-internazionali/april-24th-2024 A breve il petrolio scarseggerà, ciò avrà ripercussioni geopolitiche importanti per tutti gli stati. Questo potrebbe portare a nuove tensioni e conflitti ovunque, basti pensare alle corsa alle ricchezze dell'artico e dell'antartico. La conseguenza sarà un inasprimento delle crisi economiche e dei mercati finanziari. La transizione energetica è forse giustificata da questa evidenza, sebbene i risultati finora proposti non siano all'altezza delle previsioni. Noi europei affronteremo i prossimi anni con difficoltà crescenti non potendo contare su risorse adeguate e quindi non abbiamo alternative alla ricerca di nuove forme di energia. Qualsiasi soluzione alternativa o la stessa ricerca di nuovi giacimenti, comporterà un aumento dei prezzi insostenibile, ed è quindi evidente che sia necessario un cambio nel nostro sistema di vita. Dovremo forse imparare a muoverci di meno e a essere più parchi nell'uso delle risorse a disposizione, tra cui non va dimenticata l'acqua. Una vita meno invasiva ridurrebbe anche le tensioni internazionali e consentirebbe di far fronte alle situazioni con unità di intenti. Importante è a questo punto pensare che i nostri sistemi di vita non sono un must irrinunciabile, ma che essi devono essere adattati alla nuova realtà.
© RIPRODUZIONE RISERVATA https://www.ohimag.com/stefano-mitrione-ohi-mag-geopolitica-e-relazioni-internazionali/il-cielo-sopra-bruxelles La respirazione è un ponte che unisce due sponde, ad esempio quella della vita a quella della morte. E non è che te ne accorgi per caso, perché qualsiasi strada tu percorra prima o poi ne incontri almeno uno. Come quello che incontrai in un gelido Dicembre nevoso, ormai una rarità, quando d’un tratto la mia respirazione si fece affannosa, pesante, faticosa. La mia temperatura corporea sfiorava i quaranta gradi, all’ombra, e non per effetto del surriscaldamento globale. Era il 16 Dicembre 2020 quando risultai positivo alla Sars-Cov2, e due giorni dopo, lo ricordo bene perché sono nato il 18 Dicembre del 1966, un’ambulanza mi trasportò a sirene spiegate verso la terapia semi-intensiva del Covid Hospital di Vittorio Veneto. Da quel momento la mia strada fu veramente interrotta da un precipizio impervio dove, a dividermi dalla sponda opposta, la vita, c’era un ponte non ancora terminato. Questa era la sensazione che provavo, un’interruzione tra il respirare e il non respirare perché se per morire di fame occorrono settimane e di sete giorni, per morire d’asfissia bastano una manciata di secondi. Solo un ponte poteva salvarmi, ad esempio un ponte di cortisone, dato che il “ponte vaccinale” era appena entrato in costruzione. La mia grande paura era attraversare quel ponte non ancora finito che mi si prostava davanti al limite dello strapiombo, una gola talmente profonda, e impervia, da non vederne quasi il fondo. Stabilizzato nel mio letto di ospedale con otto litri di ossigeno iperventilato al minuto, iniziai pure a disegnarlo quel ponte. Come avrei voluto aver studiato ingegneria per poter completare al più presto il mio ponte verso la salvezza. La campata era immensa, già sorretta da gigantesche fondamenta ancorate sulla dura roccia della montagna. Iniziai quindi a produrre una certa quantità di elaborati, nella fattispecie un cumulo crescente di schizzi, disegni e concetti costruttivi che mai prima avrei pensato di elucubrare. Disegnare ponti era come diventato il baluardo di speranza verso il definitivo superamento di un incubo. Visualizzare la paura tramite un ponte era diventato l’escamotage per non pensare alla voragine che mi si sprofondava ai miei piedi. Caronte, nell’immaginazione dell’uomo, usa una barca per collegare le due sponde di un fiume, ma nel mio incubo non c’era neppure una goccia d’acqua in quel baratro, ma solo gocce di ossigeno. L’ideale, in un mondo migliore, sarebbe stata una mongolfiera, ma, e non ne conosco ancora il vero motivo, scelsi proprio un ponte per esorcizzare la paura. Probabilmente perché il concetto di ponte ci accompagna da sempre, ha a che fare con la gravità del nostro pianeta, poggia su solide basi, ci ispira solidità, sicurezza e un facile e rapido passaggio verso il punto di arrivo altrimenti irraggiungibile. E, grazie a quel ponte, riconquistai la respirazione autonoma. Il 6 Gennaio del 2021 lasciai finalmente quell’ospedale trainando quella mia valigia di ricordi e speranze conquistate anche grazie a quei ponti che avevo disegnato. Ora chissà dove sono finiti quei disegni. Il caso volle che, quasi due anni dopo, fu proprio un’ingegnere di ponti, uno vero e non una ciofeca come me, - conosciuto casualmente ad un pranzo tra amici -, che mi chiese se potevo farglieli vedere. Ne rimasi assolutamente sbalordito anche perchè fu il primo che me lo chiese fino a quel momento. A chi mai interesserebbe vedere dei ponti disegnati da uno che non saprebbe quasi aprire uno sdraio sulla spiaggia. E se dovessimo cercare qualche correlazione nel DNA mi spiace deludervi; mio padre li distruggeva e caso volle che finì il suo percorso di vita terrena proprio in concomitanza del crollo Morandi. Non sono titolato a costruire ponti, l’avete capito?. Ma i ponti esistono anche, e fortunatamente, nella fantasia di coloro che, pur non sapendoli costruire, ne fanno un concetto di vita, un baluardo di speranza verso un futuro migliore. Tutti noi siamo costruttori di ponti, reali o virtuali che siano.
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Foto in alto: Bartosz Kramek fotografa Lyudmila Kozlovska ad un convegno. (Stefano Mitrione Media credits)
AutoreStefano Mitrione Media 291 articoli disponibiliArchivi recenti
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