Parlare di giornalismo è oggi quasi anacronistico perché, a mancare, è proprio la temporalità, lo scandire dei giorni nel preciso ordine cronologico dell'informazione che si espande a macchia d'olio in un ambiente fuori controllo, dalle dimensioni ormai diventate incommensurabili. Oggi si parla di un flusso continuo della notizia che assume un valore pressoché infinito (e indefinito) nelle dashboard di ventidue miliardi di "telefoni portatili". Informazioni non più cristallizzate nell'inchiostro della carta di giornale, ma diluite nei pixel del Web. Notizie che possono essere facilmente reinterpretate da altre fonti, purché non appartengano alla stessa dimensione degli organi ufficiali, ma al dibattito collaterale nella sfera dei social network. Gian Antonio Stella, editorialista del Corriere della Sera, ha illustrato lo stato di salute del giornalismo nell'era infodemica, neologismo battezzato dall'Oms a partire da quello spartiacque pandemico che, di fatto, ha riformato i processi editoriali e di percezione dei fatti di cronaca già a partire dal 2020. E nel 2024, servono ancora i giornali? Servono ancora i giornalisti? "Il buon giornalismo ha più senso oggi che ieri", ha risposto Stella. Ai tempi della carta le false notizie arrivavano al lettore solo dopo parecchi anni. Oggi sono più veloci di quelle vere perché dicono esattamente quello che il pubblico vuole sentire, non quello che accade realmente. Notizie non necessariamente completamente false, ma ancora più ingannevoli perché contengono pattern assolutamente verosimili ma che non sono altro che i falsi garanti di un processo disinformativo ben costruito. Il movente? "Rende di più cavalcare il falso che la verità", ha sottolineato Lucia Bellaspiga di Avvenire. E, secondo la mia percezione, la gente ha una cinica predilezione per il “marcio”. Le buone notizie non divertono più. E se devi spalleggiare con l'autorevolezza degli editori già conclamati, l'unica "strategia di guerra" è quella di usare "armi deontologiche" completamente diverse. Quello che ci deve spaventare è la mancanza di un'attitudine alla cultura, non alla tecnologia. Oppure quello che viene fin troppo frettolosamente definito come "Main Stream" è piuttosto una storia editoriale, un progetto di lunga data che ha visto il susseguirsi di professionisti che, se anche non necessariamente allineati all'anima stessa della testata, hanno comunque tenuto fede alle proprie responsabilità deontologiche cercando di inseguire sempre i fatti reali al fine di creare una propria e solida reputazione di affidabilità. Perché non è vero che scrivere falsità è facile come scrivere il vero, almeno nel giornalismo serio. Esiste la gogna, e il danno economico, della "querela temeraria". Smettiamo di parlare di giornalisti asserviti al sistema. Dietro c'è un mestiere tutt'altro che redditizio e soprattutto minato da pericoli giudiziari, oltre che sul campo dei fatti trattati. Basti pensare al giornalismo di guerra o di mafia, ma anche a quello in campo farmaceutico ostacolato da muri quasi impenetrabili da cui è facile cadere. Asservito, al denaro derivato dalla pubblicità, è chi ogni giorno apre testate all'unico scopo di promuovere unicamente quello che il pubblico vuole leggere, e non quello che vuole comprendere al di sopra del proprio "credo spirituale e ideologico". Asservito, al potere del dominio territoriale, è quell'organo governativo straniero che vuole destabilizzare la società avversaria per un fine geopolitico. Le parole hanno sempre un peso preciso e il giornalismo è ancora vivo. Diverso è il mare in cui galleggia che è molto più viscoso. © RIPRODUZIONE RISERVATA IL GIORNALISMO NELL'ERA DELLA CULTURA DI MASSA (CRITICA)VERSIONE INTEGRALE Stefano Mitrione _ 05/01/2025 Parlare di giornalismo è oggi quasi anacronistico perché, a mancare, è proprio la temporalità, lo scandire dei giorni nel preciso ordine cronologico dell'informazione che si espande a macchia d'olio in un ambiente fuori controllo, dalle dimensioni ormai diventate incommensurabili. Estinti quegli inossidabili cinquantacinque minuti che fino a qualche decennio fa dividevano la scrittura dalla stampa, oggi si parla di un flusso continuo della notizia che assume un valore pressoché infinito (e indefinito) nelle dashboard di ventidue miliardi di "telefoni portatili". Informazioni non più cristallizzate nell'inchiostro della carta di giornale, ma diluite nei pixel del Web. Notizie che possono essere facilmente reinterpretate da altre fonti, purché non appartengano alla stessa dimensione degli organi ufficiali, ma al dibattito collaterale nella sfera dei social network. Gian Antonio Stella, editorialista del Corriere della Sera, ci illustra lo stato di salute del giornalismo nell'era infodemica, neologismo battezzato dall'OMS a partire da quello spartiacque pandemico che, di fatto, ha riformato i processi editoriali e di percezione dei fatti di cronaca già a partire dal 2020.
E nel 2024, servono ancora i giornali? Servono ancora i giornalisti? "Il buon giornalismo ha più senso oggi che ieri", ha risposto Gian Antonio Stella. Ai tempi della carta le false notizie arrivavano al lettore solo dopo parecchi anni. Oggi sono più veloci di quelle vere perché dicono esattamente quello che il pubblico vuole sentire, non quello che accade realmente. Notizie non necessariamente completamente false, ma ancora più ingannevoli perché contengono pattern assolutamente verosimili ma che non sono altro che i falsi garanti di un processo disinformativo ben costruito. Il movente? "Rende di più cavalcare il falso che la verità", ha sottolineato Lucia Bellaspiga di Avvenire. E secondo la mia percezione la gente ha una cinica predilezione per il marcio. Le buone notizie non divertono più. E se devi spalleggiare con l'autorevolezza degli editori già conclamati, l'unica "strategia di guerra" è quella di usare "armi deontologiche" completamente diverse. Viceversa il buon giornalismo cerca di fare chiarezza piuttosto che generare confusione. Lo fa con dati, numeri e fatti. Del resto omettere o manipolare la verità è altrettanto naturale in un mondo di briganti, e se l'informazione oggi vale più dell'oro, il crimine è servito: la disinformazione uccide molte vite umane, non solo la credibilità stessa di un intero sistema. Così tra il pubblico si è creata una diffidenza ormai persistente, mentre un incerto "l'ho letto su Facebook " diventa un definitivo "non credo più a nessuno". Complici sono gli stessi consumatori del fast food della moderna informazione, quelli che si nutrono di titoli ad effetto, letture frammentate e dove l'approfondimento delle fonti non viene assolutamente considerato al grido di "l'ho letto su... e questo mi basta". Viviamo nell'era del marketing, dei brand, del merchandising e non in quella di chi, scrivendo "solo su un giornale", ci mette la faccia e non un logo. Così il giornalismo sembra defunto nella misura con cui diamo più valore a un simbolo, o a un marchio, piuttosto che a un individuo. Non è morto il giornalismo, è morto il senso di umanità, di civiltà. Secondo Lucia Bellaspiga bisogna avere l'umiltà di tentare di cercare la verità, senza voler rincorrere a tutti i costi il fatto di cronaca, o lo scoop per antonomasia. Meglio soffermarsi sul commento, sull'approfondimento interpersonale piuttosto che sulla freschezza della notizia. Ma ritornando a quello che di vero c'è nella notizia, verrebbe da aggiungere che non sempre i nomi più blasonati sono i buoni. E questi giornalisti possono creare più danni alla società di una piccola testata emergente che cerca lettori con notizie fuorvianti. Siamo umani e a volte a prevalere è l'ego, non il raziocinio. "Un bambino costretto a fare il vaccino muore" a dirlo è stato Caserta Sera al tempo della caccia alle streghe, ai cattivi del Big Pharma e ai corrotti di governo. Una notizia ovviamente diventata virale e soprattutto credibile, data la paura sui vaccini che andava diffondendosi. La gente voleva sentire queste notizie, perché così poteva identificare meglio un male troppo invisibile da poter essere evitato. Notizia prive di evidenze, di prove, ma soprattutto di un riferimento ad una persona reale. Solo dopo un costante martellamento telefonico alla redazione da parte di Michelangelo Coltelli di Butac, ricorda Stella, venne alla luce la verità: il bambino era frutto della fantasia del giornalista. Un fine giustificato da mezzi incongrui per un reato tra i peggiori secondo la legislazione internazionale, europea e nazionale del giornalismo: inventarsi la fonte. E questo è solo la punta di un iceberg che troppo spesso resta sommerso in quella "poltiglia di balle" che è diventata un mercato a sé, al di sopra del famigerato "pensiero unico" la cui colpa è quella di essere palesemente drogato da allucinazioni mediatiche. O come nel caso di Eluana Englaro: era diventato solo una questione di spina, da staccare. Ma bastava andare a trovarla a casa sua, ribadisce Bellaspiga che l'ha fatto ben quattro volte, per accorgersi che l'unica spina che si poteva staccare era quella della TV. E non era affatto scarnificata, tumefatta e piena di piaghe. Differente era il caso di Piergiorgio Welby, lui si era veramente attaccato ad una macchina, le persone non sono incasellabili in storie comuni. E questa è reputazione di affidabilità, quella di raccontare i fatti, non fare titoli sensazionalistici o politici. Un altro caso è quello di Li Wenliang, l'oftalmologo cinese che si accorse della pericolosità della virulenza della Sars-Cov 2 quando ancora l'OMS garantiva che non avrebbe varcato i confini territoriali di Wuhan, e di quella lettera in cui riconosceva le sue colpe per aver procurato un falso allarme. Avvenire, spiega Bellaspiga, fu l'unica testata a non diffondere avventatamente la notizia, e fece bene perché il contenuto della lettera, troppo lungo da essere stato verosimilmente formulato nelle condizioni cliniche in cui versava Wenliang in quei giorni, era stato imposto e circuito dalle stesse autorità locali nel tentativo di alleviare le responsabilità cinesi dai gravi fatti accaduti. E così è stato, chi aveva già diffuso queste falsità dovette poi ammettere di avere sbagliato. La cautela a volte ripaga il silenzio stampa. Questi sono alcuni dei casi più emblematici in cui si concretizza la reputazione di affidabilità di chi descrive i fatti e di chi li pubblica. Viceversa se pubblichi una foto di un tramonto, aggiunge Bellaspiga di Avvenire, ricevi settecento commenti di insulto perché ti trovi dalla parte dei "poteri forti", perché le scie di condensazione degli aerei transitati per caso nel campo dell'inquadratura, sono invece scie chimiche e vanno denunciate se il giornalista non è accondiscendente. Partiamo invece dal significato delle parole che troppo spesso diamo per scontate. Ad esempio, cosa significa giornalismo? Basta aprire la Treccani e scopriamo l'enorme responsabilità di questa parola che avvicina l'uomo alla luce della conoscenza, a Dio. Bellaspiga continua il suo viaggio narrativo in un tempo quasi preistorico ricordando quando si scriveva con i tasti delle lettere mancanti, solitamente le più usate come le "a" e le "e", aggiustate con la gomma da masticare. Allora i giornali gareggiano sulla qualità con mezzi poveri. Oggi il più bravo è quello che arriva prima e, a rimetterci, è il controllo della sintassi e ancor peggio quello delle fonti. Il cosiddetto " verba volant scripta manent " non ha più senso di esistere; se hai sbagliato di informare basta correggere in cloud e magicamente quello che avevi scritto qualche giorno prima smette di esistere. E poi c'è la percezione di quello che viene scritto: non è detto che tutti, pur sapendo scrivere e leggere, possano comprendere correttamente un contenuto articolato. È questo uno degli aspetti più insidiosi in fatto di disinformazione. Il ricevente deve essere sintonizzato all'emittente, viceversa il contenuto stesso rischia di essere frainteso e magari riconfezionato nei social con un fine completamente diverso. Una sorta di disinformazione bidirezionale, sia da parte di organi di stampa senza tanti scrupoli, sia da parte di una platea incolta alla ricerca di una qualsiasi conferma al proprio credo ideologico. A questo punto l'unico mezzo di contrasto sono i dati e i numeri reali, chiosa Stella. Ad esempio, se la percezione è che in Italia ci sono troppi omicidi e le strade sono sempre meno sicure per colpa dei migranti, la verità è invece che siamo quattordici volte più al sicuro che in USA e molto più sicuri rispetto al nostro stesso passato. Il problema resta invece che ben il settanta per cento dei giovani, compresa una considerevole porzione di adulti che si credono ancora tali, si informa esclusivamente attraverso i social, e non dalle pagine ufficiali di chi scrive le notizie, da chi le confeziona nuovamente alterandone, in buona o cattiva fede, la sostanza dei fatti. Si, "c'è più bisogno oggi di giornalismo che ieri", ha sottolineato con fermezza Stella. C'è un urgente bisogno di una rilettura fondamentale del significato di "informazione comune" aggiunge subito dopo Bellaspiga. Oggi quasi tutti sanno tagliare un video digitando velocemente testi di supporto senza capo e ne coda sulla tastiera del proprio smartphone. Quello che ci deve spaventare è la mancanza di un'attitudine alla cultura, non alla tecnologia. Oppure quello che viene fin troppo frettolosamente definito come "Main Stream" è piuttosto una storia editoriale, un progetto di lunga data che ha visto il susseguirsi di professionisti che, se anche non necessariamente allineati all'anima stessa della testata, hanno comunque tenuto fede alle proprie responsabilità deontologiche cercando di inseguire sempre i fatti reali al fine di creare una propria e solida reputazione di affidabilità. Perché non è vero che scrivere falsità è facile come scrivere il vero, almeno nel giornalismo serio. Esiste la gogna, e il danno economico, della "Querela temeraria". Stella ne ha ricevute più di cento e le ha vinte tutte. Quello che invece auspicherebbe è che questo non continui ad essere il pretesto politico per rallentare le indagini giornalistiche fino alla risoluzione legale delle rispettive responsabilità. Un limbo che di fatto vede legare le mani al percorso della notizia e dove a pagare, in caso di condanna, è solo il giornalista e non il politico. Quindi smettiamo di parlare di giornalisti asserviti al sistema; dietro c'è un mestiere tutt'altro che redditizio e soprattutto minato da pericoli giudiziari, oltre che sul campo dei fatti trattati. Basti pensare al giornalismo di guerra o di mafia, ma anche a quello in campo farmaceutico ostacolato da muri quasi impenetrabili da cui è facile cadere. Asservito, al denaro derivato dalla pubblicità, è chi ogni giorno apre testate all'unico scopo di promuovere unicamente quello che il pubblico vuole leggere, e non quello che vuole comprendere al di sopra del proprio "credo spirituale e ideologico". Asservito, al potere del dominio territoriale, è quell'organo governativo straniero che vuole destabilizzare la società avversaria per un fine geopolitico. Le parole hanno sempre un peso preciso e il giornalismo è ancora vivo. Diverso è il mare in cui galleggia che è molto più viscoso. © RIPRODUZIONE RISERVATA
0 Commenti
Lascia una Risposta. |
Foto in alto: Bartosz Kramek fotografa Lyudmila Kozlovska ad un convegno. (Stefano Mitrione Media credits)
AutoreStefano Mitrione Media 291 articoli disponibiliArchivi recenti
Gennaio 2025
Categorie |