La respirazione è un ponte che unisce due sponde, ad esempio quella della vita a quella della morte. E non è che te ne accorgi per caso, perché qualsiasi strada tu percorra prima o poi ne incontri almeno uno. Come quello che incontrai in un gelido Dicembre nevoso, ormai una rarità, quando d’un tratto la mia respirazione si fece affannosa, pesante, faticosa. La mia temperatura corporea sfiorava i quaranta gradi, all’ombra, e non per effetto del surriscaldamento globale. Era il 16 Dicembre 2020 quando risultai positivo alla Sars-Cov2, e due giorni dopo, lo ricordo bene perché sono nato il 18 Dicembre del 1966, un’ambulanza mi trasportò a sirene spiegate verso la terapia semi-intensiva del Covid Hospital di Vittorio Veneto. Da quel momento la mia strada fu veramente interrotta da un precipizio impervio dove, a dividermi dalla sponda opposta, la vita, c’era un ponte non ancora terminato. Questa era la sensazione che provavo, un’interruzione tra il respirare e il non respirare perché se per morire di fame occorrono settimane e di sete giorni, per morire d’asfissia bastano una manciata di secondi. Solo un ponte poteva salvarmi, ad esempio un ponte di cortisone, dato che il “ponte vaccinale” era appena entrato in costruzione. La mia grande paura era attraversare quel ponte non ancora finito che mi si prostava davanti al limite dello strapiombo, una gola talmente profonda, e impervia, da non vederne quasi il fondo. Stabilizzato nel mio letto di ospedale con otto litri di ossigeno iperventilato al minuto, iniziai pure a disegnarlo quel ponte. Come avrei voluto aver studiato ingegneria per poter completare al più presto il mio ponte verso la salvezza. La campata era immensa, già sorretta da gigantesche fondamenta ancorate sulla dura roccia della montagna. Iniziai quindi a produrre una certa quantità di elaborati, nella fattispecie un cumulo crescente di schizzi, disegni e concetti costruttivi che mai prima avrei pensato di elucubrare. Disegnare ponti era come diventato il baluardo di speranza verso il definitivo superamento di un incubo. Visualizzare la paura tramite un ponte era diventato l’escamotage per non pensare alla voragine che mi si sprofondava ai miei piedi. Caronte, nell’immaginazione dell’uomo, usa una barca per collegare le due sponde di un fiume, ma nel mio incubo non c’era neppure una goccia d’acqua in quel baratro, ma solo gocce di ossigeno. L’ideale, in un mondo migliore, sarebbe stata una mongolfiera, ma, e non ne conosco ancora il vero motivo, scelsi proprio un ponte per esorcizzare la paura. Probabilmente perché il concetto di ponte ci accompagna da sempre, ha a che fare con la gravità del nostro pianeta, poggia su solide basi, ci ispira solidità, sicurezza e un facile e rapido passaggio verso il punto di arrivo altrimenti irraggiungibile. E, grazie a quel ponte, riconquistai la respirazione autonoma. Il 6 Gennaio del 2021 lasciai finalmente quell’ospedale trainando quella mia valigia di ricordi e speranze conquistate anche grazie a quei ponti che avevo disegnato. Ora chissà dove sono finiti quei disegni. Il caso volle che, quasi due anni dopo, fu proprio un’ingegnere di ponti, uno vero e non una ciofeca come me, - conosciuto casualmente ad un pranzo tra amici -, che mi chiese se potevo farglieli vedere. Ne rimasi assolutamente sbalordito anche perchè fu il primo che me lo chiese fino a quel momento. A chi mai interesserebbe vedere dei ponti disegnati da uno che non saprebbe quasi aprire uno sdraio sulla spiaggia. E se dovessimo cercare qualche correlazione nel DNA mi spiace deludervi; mio padre li distruggeva e caso volle che finì il suo percorso di vita terrena proprio in concomitanza del crollo Morandi. Non sono titolato a costruire ponti, l’avete capito?. Ma i ponti esistono anche, e fortunatamente, nella fantasia di coloro che, pur non sapendoli costruire, ne fanno un concetto di vita, un baluardo di speranza verso un futuro migliore. Tutti noi siamo costruttori di ponti, reali o virtuali che siano.
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AutoreStefano Mitrione Media 291 articoli disponibiliArchivi recenti
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