FOTOGENICA
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Ognuno di noi ha un suo lato fotogenico.
L’inconscio algoritmico.
Cosa dicono di noi le immagini dell’intelligenza artificiale.
Abbiamo avuto finora due grandi definizioni della visione non umana. Cioè del potere delle macchine di vedere più di noi. La prima, molto celebre, è di Walter Benjamin, e risale agli anni Trenta. Riporto la citazione chiave: La natura che parla alla macchina fotografica è una natura diversa da quella che parla all'occhio. Diversa specialmente per questo, che al posto di uno spazio elaborato consapevolmente dall'uomo c'è uno spazio elaborato inconsciamente. La seconda, divenuta quasi altrettanto celebre, è di Franco Vaccari, e risale agli anni Settanta. Anche qui, ecco il passo cruciale: Ogni macchina segue delle regole che strutturano la sua produzione e l'insieme di queste regole funziona come un vero e proprio inconscio, anche se statico ed estremamente rudimentale. L'immagine fotografica ha quindi sempre un senso, anche e forse soprattutto in assenza di un soggetto cosciente. Il che equivale a dire che non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui.
Benjamin chiamò inconscio ottico questa singolare proprietà della macchina di vedere a nostra insaputa. Vaccari lo chiamò inconscio tecnologico.Qualcuno fece notare che si tratta delle due facce della stessa medaglia: vista in Benjamin dal lato umano, in Vaccari dal lato meccanico. Entrambi ci invitano a considerare questa novità enorme nella storia della visione: l’esistenza di immagini che abbiamo richiesto, ma non previsto. Quasi cinquant’anni (e una guerra che ha cambiato il mondo) separano quelle due magnifiche intuizioni. Ma entrambe facevano parte di un medesimo contesto, per quanto riguarda la tecnica fotografica: le macchine a cui si riferivano erano sostanzialmente simili, funzionavano alla stessa maniera. Così come tutta la filiera che stava attorno: la stampa, i rotocalchi, la pubblicità, Sono passati quasi altri cinquant’anni dal testo di Vaccari.
Ma il contesto della produzione delle immagini ora è radicalmente cambiato. Un nuovo strumento programmato di produzione delle immagini, un nuovo occhio meccanico (elettronico: ma l’elettronica è la meccanica delle particelle) ci mostra di nuovo immagini che ci sorprendono, che abbiamo richiesto, ma non previsto. L’intelligenza artificiale è fra noi. E fa immagini.Possiamo parlare allora di un terzo gradino di quella scala tracciata dai nostri due pensatori? Possiamo parlare, oggi, di un inconscio algoritmico?Io credo proprio di sì. Ed è un altro elemento che mi conferma nell’idea, che ho esposto nella precedente puntata di Fotocrazia, secondo cui l’intelligenza artificiale generativa di immagini è molto più vicina alla storia e alla genealogia della fotografia che a quella, a cui sembrerebbe riportarci, della pittura.Intanto, e Vaccari credo che ne possa trarre legittima soddisfazione, l’IA è il trionfo di quella capacità di strutturare l’immagine, autonomamente e indipendentemente dalla volontà del fotografo, che per lui apparteneva già alle fotocamere analogiche.
Come l’IA anche quelle, sostiene Vaccari, possiedono un programma, progettato da ingegneri umani e trasferito, “congelato” nei componenti di acciaio della loro meccanica, che è pensato per saper produrre un’immagine ben strutturata una volta ricevuto l’ordine di farlo. Ricordo che con Franco, molti anni fa, discutemmo a lungo su Vilém Flusser, i cui testi cominciavano a circolare in Italia, e di quella teoria del pensatore tedesco-brasiliano che confermava la sua: ovvero, che il fotografo è di fatto ridotto ad essere un funzionario al servizio della fotocamera, l’addetto che la mette in moto per consentirle di eseguire la sua missione fondamentale: fare tutte le fotografie possibili, esaurire il mondo con le fotografie.Anche i programmi di IA, di fatto, si comportano così.
Aspettano di essere attivati, per esaurire il mondo delle immagini già esistenti trasformandole in nuove immagini. E infatti anche l’IA ci trasforma in suoi servizievoli assistenti. Ha bisogno di essere attivata da una nostra richiesta, poi fa tutto da sola. E quello che ci mostra ci sorprende perché, per quanto noi possiamo aver dettagliato il nostro prompt con ogni genere di istruzioni, c’è sempre qualcosa, nell’immagine che viene fuori, che non avevamo richiesto, né previsto.Per dire. Avevo chiesto a uno dei tanti programmini di disegnarmi un cammello che passa per la cruna di un ago. Nient’altro, nessuna indicazione di scenario. Mi sfornò una immagine di un cammello di pezza (vedetela all’inizio di questo testo), dentro la cruna di un ago gigantesco che galleggiava su un paesaggio mediorientale dal quale spuntavano piccole torri di Babele.
Dunque, autonomamente, e sulla base delle sue spontanee ricerche di contiguità statistica, IA aveva confezionato il cammello in materia tessile (l’ago…) e soprattutto aveva immaginato uno scenario biblico, riconoscendo quella frase come metafora evangelica. Nulla di inspiegabile, certo. Ma erano cose che io non avevo chiesto alla IA, le ha volute mettere lei. Prendendole da dove? Ma ovviamente, dal repertorio della nostra cultura, e dalle sue immagini.Ed ecco quel che volevo dire. Così come l’inconscio ottico di Benjamin, grazie all’inconscio tecnologico di Vaccari, riusciva a scomporre, ad esempio, il movimento elle gambe di un passante mostrandocele in posizioni che non ci sono familiari; allo stesso modo IA riesce a comporre una immagine per noi inattesa gettando le reti nel mare immenso della nostra cultura. IA non inventa nulla.
Ma la sua velocissima stolidità di calcolatore di ricorrenze, anche se non era stata progettata per questo, adesso ci fornisce impressionanti sondaggi sulle immagini che abbiamo introiettato senza saperlo. Psicanalizza il nostro immaginario collettivo, rimestando nel profondo. Quando ho chiesto di nuovo la stessa immagine, del cammello e della cruna, l’IA, come fa sempre, mi ha prodotto un’immagine del tutto diversa. Eccovela qui, in fondo al testo. Per me è inspiegabile. L’ago c’è, la cruna no, e nella pancia del cammello si apre una strana fessura in cui compare il profilo di uno scimmione che sta facendo qualcosa.
Cosa ci fa quello scimmione lì? Da quale remoto bassofondo dell’inconscio collettivo IA ha preso questa figura? Cosa significa? C’è qualcosa che IA vuole dirmi? Più che Freud, l’inconscio algoritmico è lo Jung delle immagini: conosce e trova gli archetipi del nostro pensiero visuale. Cosa possiamo farne? Ma soprattutto, lei cosa ne farà? Cosa ne sta facendo? Come sta giocando con il nostro inconscio umano, ormai così obsoleto?
Benjamin chiamò inconscio ottico questa singolare proprietà della macchina di vedere a nostra insaputa. Vaccari lo chiamò inconscio tecnologico.Qualcuno fece notare che si tratta delle due facce della stessa medaglia: vista in Benjamin dal lato umano, in Vaccari dal lato meccanico. Entrambi ci invitano a considerare questa novità enorme nella storia della visione: l’esistenza di immagini che abbiamo richiesto, ma non previsto. Quasi cinquant’anni (e una guerra che ha cambiato il mondo) separano quelle due magnifiche intuizioni. Ma entrambe facevano parte di un medesimo contesto, per quanto riguarda la tecnica fotografica: le macchine a cui si riferivano erano sostanzialmente simili, funzionavano alla stessa maniera. Così come tutta la filiera che stava attorno: la stampa, i rotocalchi, la pubblicità, Sono passati quasi altri cinquant’anni dal testo di Vaccari.
Ma il contesto della produzione delle immagini ora è radicalmente cambiato. Un nuovo strumento programmato di produzione delle immagini, un nuovo occhio meccanico (elettronico: ma l’elettronica è la meccanica delle particelle) ci mostra di nuovo immagini che ci sorprendono, che abbiamo richiesto, ma non previsto. L’intelligenza artificiale è fra noi. E fa immagini.Possiamo parlare allora di un terzo gradino di quella scala tracciata dai nostri due pensatori? Possiamo parlare, oggi, di un inconscio algoritmico?Io credo proprio di sì. Ed è un altro elemento che mi conferma nell’idea, che ho esposto nella precedente puntata di Fotocrazia, secondo cui l’intelligenza artificiale generativa di immagini è molto più vicina alla storia e alla genealogia della fotografia che a quella, a cui sembrerebbe riportarci, della pittura.Intanto, e Vaccari credo che ne possa trarre legittima soddisfazione, l’IA è il trionfo di quella capacità di strutturare l’immagine, autonomamente e indipendentemente dalla volontà del fotografo, che per lui apparteneva già alle fotocamere analogiche.
Come l’IA anche quelle, sostiene Vaccari, possiedono un programma, progettato da ingegneri umani e trasferito, “congelato” nei componenti di acciaio della loro meccanica, che è pensato per saper produrre un’immagine ben strutturata una volta ricevuto l’ordine di farlo. Ricordo che con Franco, molti anni fa, discutemmo a lungo su Vilém Flusser, i cui testi cominciavano a circolare in Italia, e di quella teoria del pensatore tedesco-brasiliano che confermava la sua: ovvero, che il fotografo è di fatto ridotto ad essere un funzionario al servizio della fotocamera, l’addetto che la mette in moto per consentirle di eseguire la sua missione fondamentale: fare tutte le fotografie possibili, esaurire il mondo con le fotografie.Anche i programmi di IA, di fatto, si comportano così.
Aspettano di essere attivati, per esaurire il mondo delle immagini già esistenti trasformandole in nuove immagini. E infatti anche l’IA ci trasforma in suoi servizievoli assistenti. Ha bisogno di essere attivata da una nostra richiesta, poi fa tutto da sola. E quello che ci mostra ci sorprende perché, per quanto noi possiamo aver dettagliato il nostro prompt con ogni genere di istruzioni, c’è sempre qualcosa, nell’immagine che viene fuori, che non avevamo richiesto, né previsto.Per dire. Avevo chiesto a uno dei tanti programmini di disegnarmi un cammello che passa per la cruna di un ago. Nient’altro, nessuna indicazione di scenario. Mi sfornò una immagine di un cammello di pezza (vedetela all’inizio di questo testo), dentro la cruna di un ago gigantesco che galleggiava su un paesaggio mediorientale dal quale spuntavano piccole torri di Babele.
Dunque, autonomamente, e sulla base delle sue spontanee ricerche di contiguità statistica, IA aveva confezionato il cammello in materia tessile (l’ago…) e soprattutto aveva immaginato uno scenario biblico, riconoscendo quella frase come metafora evangelica. Nulla di inspiegabile, certo. Ma erano cose che io non avevo chiesto alla IA, le ha volute mettere lei. Prendendole da dove? Ma ovviamente, dal repertorio della nostra cultura, e dalle sue immagini.Ed ecco quel che volevo dire. Così come l’inconscio ottico di Benjamin, grazie all’inconscio tecnologico di Vaccari, riusciva a scomporre, ad esempio, il movimento elle gambe di un passante mostrandocele in posizioni che non ci sono familiari; allo stesso modo IA riesce a comporre una immagine per noi inattesa gettando le reti nel mare immenso della nostra cultura. IA non inventa nulla.
Ma la sua velocissima stolidità di calcolatore di ricorrenze, anche se non era stata progettata per questo, adesso ci fornisce impressionanti sondaggi sulle immagini che abbiamo introiettato senza saperlo. Psicanalizza il nostro immaginario collettivo, rimestando nel profondo. Quando ho chiesto di nuovo la stessa immagine, del cammello e della cruna, l’IA, come fa sempre, mi ha prodotto un’immagine del tutto diversa. Eccovela qui, in fondo al testo. Per me è inspiegabile. L’ago c’è, la cruna no, e nella pancia del cammello si apre una strana fessura in cui compare il profilo di uno scimmione che sta facendo qualcosa.
Cosa ci fa quello scimmione lì? Da quale remoto bassofondo dell’inconscio collettivo IA ha preso questa figura? Cosa significa? C’è qualcosa che IA vuole dirmi? Più che Freud, l’inconscio algoritmico è lo Jung delle immagini: conosce e trova gli archetipi del nostro pensiero visuale. Cosa possiamo farne? Ma soprattutto, lei cosa ne farà? Cosa ne sta facendo? Come sta giocando con il nostro inconscio umano, ormai così obsoleto?
Photo credits: Tima Miroshnichenko, Pixabay, Brett Sayles